Da Aquilegia, Einaudi, Torino 1973 e 1988
417. Il nutrimento
Il ventre! Il ventre! Ex ventre lux. Eravamo circondati di nutrimento. Un mare di nutrimento ci sommergeva. Montagne di nutrimento ci sovrastavano. Il sole del nutrimento ci riscaldava. I piedi sguazzavano nel nutrimento. Ecco l’uomo: il suo nutrimento. A immagine del nutrimento l’uomo è fatto. Nel nutrimento viviamo, ci moviamo e siamo. Le bandiere del Doganiere erano issate sui banchi del nutrimento. La gente festeggiava la presa di tutte le bastiglie della fame.
Sigè, che aveva addentato subito qualcosa, ebbe dolori viscerali e sintomi di soffocamento. Lo salvò un autorevole personaggio vestito da frate cappuccino, barba marmorea, occhiali d’oro, con un’erba tempestiva. Olàm riconobbe, sotto il travestimento, il venerabile medico della peste ateniese.
– Se c’è in giro Ippocrate, ci dev’essere anche il miasma epidemico in questo mercato.
Ecco là un altro imprudente che poco fa ha mangiato, per sfida, un grappolo d’uva. È un protofisico di gran nome che non voleva assolutamente ammettere la realtà del miasma, e per anni e anni non ha fatto che dire alla gente: mangiate pure, non c’è nessun pericolo.
Il poveretto aveva l’aria robusta, ma il dolore l’aveva subito stracciato. Tremava, vomitava, farneticava. Ippocrate gli prese il polso, lo scrutò in faccia e scosse la testa: – Ne avrà per pochi minuti –. Infallibile pronostico! Cinque o sei minuti durò l’agonia di quell’ottuso medico, che fu portato via da un paio di beccamorti in borghese che si aggiravano, con finta noncuranza, mescolati alla folla dei compratori, attorno ai banchi del nutrimento. Sigè, risanato, ma appena convalescente, fiutava la vicinanza del suo amico, che però non si mostrava.
Ci avvicinammo ai banchi di frutta, che di lontano parevano Esperidi e Hispaniole smaniose di essere saccheggiate. Da vicino, i frutti ci parvero malati di una laidissima perfezione. Erano più grossi del normale, tutti nati fuori della loro stagione, senza un’ammaccatura né un segno di corruzione, lucidi come scarpe di vernice. Sembravano dipinti: chi aveva mai visto, sugli alberi da frutto, quei falsi colori? Palpandoli, trovavi la durezza della pietra e il freddo della morte. Nessun profumo; solo un sentore triste di ospedale, di cripta mortuaria, di voltaggi esecutori di una sentenza.
– Vengono dai tropici e dagli orti vicini, – disse Ippocrate, – dalle valli alpine e dalle coste assolate; gioiosamente intatti da ogni corruzione naturale, gelidi e appestati.Vedemmo fragole che parevano fegati di bue, pomodori come piedi deformati dai calli e dalle storte, nocchiuti, gobbuti, linfatici, sclerotici. Ahi Tomate! Meraviglioso dono delle Indie Occidentali, quale maleficio aveva potuto ridurti in quell’orrido stato?
– Li generano il freddo e l’oscurità, – mormorò Ippocrate indicando le cassette in movimento – sono figli dell’Erebo e della Notte.
Nutrimento! Non era il Sole il padre dei frutti?
– In verità, – ci illuminò Ippocrate, – il signore delle Tenebre ha coperto del suo dominio tutta la parte di mercato che concerne il Nutrimento. Non troverete niente senza il suo terribile segno. Vi consiglio di non mangiare niente di quel che vedete. Sorvegliate il vostro cane. Se vedete bambini che desiderano qualche frutto, distraeteli con una favola. Tutto è contaminato. I formaggi, le uova, le carni, il pane, il miele, il latte, il burro, il vino… Soprattutto, non fidatevi del vino! Datteri africani, pompelmi della Guinea, prugne californiane, banane delle Antille… tutto quello che arriva qui, al Grande Mercato, proviene da un unico albero, l’albero di morte. Dolci, li fabbricano streghe e stregoni reclutati come coscritti, a ritmo acceleratissimo. I metalli più velenosi hanno corrotto la vita degli oceani. L’olio! Come può salvarvi l’olio? L’ulivo ci maledisce. Gettate quei barattoletti negli immondezzai. Il riso dell’oriente nasce dalla morte che gli ha portato l’occidente. Se ne mangerete, morrete… Non come morì Adamo della sua mela, alla quale sopravvisse novecento anni, ma di morte meno metafisica, perfettamente ippocratica.
Il maestro non voleva spaventarci: voleva solo avvertirci, comunicandoci il frutto delle sue osservazioni. Ma noi eravamo atterriti. Una madre gli presentò suo figlio, un bambino di due o tre anni, qualche briciola di torta sulle labbra; il bambino rantolava. – Salvalo, Ippocrate, tu che sei giusto!
Si vide Ippocrate versare tra le labbra del bambino, dopo averle accuratamente ripulite delle pericolose briciole, qualche goccia del suo hypocràs e fargli odorare una boccettina.
– Portalo a casa, dagli questo vomitivo e tuo figlio vivrà.
La donna gli baciò le mani e la barba.
– Dovrai però tenerlo lontano da ogni alimento, – disse il sommo medico.
– Con che cosa lo nutrirò, Maestro?
– Con le parole dei sapienti, – disse Ippocrate.
– Non fanno vivere.
– Fanno ben morire.
– Io voglio nutrirlo perché viva.
– In tutto questo mercato non c’è niente di buono per nutrirne tuo figlio.
– Allora perché me lo hai guarito?
– Perché tu mi hai detto: «Salvalo, Ippocrate». Io non potevo far altro che salvarlo. E se tu mi tornassi a chiedere la stessa cosa, tra un anno, quando tutto sarà peggiore, io cercherei di salvarlo di nuovo. Devo però metterti in guardia: l’unico limite al peggiorare del nutrimento è la cessazione del nutrimento. Se rifletterai su questo, donna, prima di avere scioccamente altri figli, verrai a chiedermi un’erba che guarisca l’utero dafla smania d’ingravidare.
– Perché non guarisci il nutrimento?
– Ha un male incurabile. Sono gli Dei che lo vogliono.
E Ippocrate sorrideva malinconico al bambino salvato. La donna si allontanò felice e rattristata.
Dopo l’avvertimento magistrale, ci astenevamo dal cibo; ma in un viaggio come questo è facile. La gente, invece, comprava e mangiava con voracità mai vista, e i due becchini di servizio presto morirono di sfinimento o, forse, di un formaggio. Ne vennero assunti altri, che ostentavano un bellissimo costume, moto simile a quello delle Guardie Svizzere del papa, e non avevano un momento di riposo.
Seduto su una cassa di pomodori vuota, c’era un addetto alla pulizia del mercato, che infischiandosene degli ammonimenti ippocratici mangiava tranquillamente pane, formaggio, melone e fichi, e si scolava senza paura anche un bel fiasco di vino. Si vedeva che stava benissimo. Allora, in quel mercato, c’era anche del nutrimento sano! Ma Sigè saltava intorno a quell’uomo come David davanti all’arca.
– Ecco il mio nemico, – disse Ippocrate.
– Ecco il mio, – disse l’angelo della morte, – scusate se continuo il mio pranzo, – (ci parlava masticando) – ma ho poco tempo.
Sigè voleva da lui del cibo, ma l’addetto alle pulizie saggiamente glielo rifiutò. Senza stupirci, trangugiò tre o quattro ostriche fresche, di cui due fidanzati, inesperti del mondo, erano morti poco prima.
– Dal tempo del morbo nell’Attica ci siamo incontrati parecchie volte, – disse l’angelo a Ippocrate, – ma qui la scena manca di grandezza, niente nobili colonne, niente cupole… vedete come sono vestito..
Noi eravamo molto meno potenti, ma certo molto meglio vestiti di lui. Enarchì aveva una piuma nuova. Qualunque momento è buono per un piccolo compiacimento.
– Questa volta, – disse Ippocrate, – il mio lavoro è più difficile e il tuo più facile. Come faccio a convincere la gente di non mangiare?
– Tanto più merito avrai, se qualcuno scamperà, – sorrise l’addetto alle pulizie, mettendo i denti in un panino alla mortadella, – ma la facilità di questo lavoro mi avvilisce. Inoltre, dovendo lavorare specialmente nelle ore del pranzo e della cena, sono costretto a mangiare in ore insolite, come adesso.
– Mi fa piacere che tu senta vergogna: ma perché avveleni il nutrimento?
– Non incolpare me; sta tutto scritto… – (e si spalmò sull’ultimo resto di pane un bel pezzo di gorgonzola poco rassicurante); – … al mio stile ripugna, ti assicuro… compiango gli uomini, credimi, la loro pazzia forzata, predestinata… un circolo senza scampo… E io vinco, come ho vinto sempre… – (dovette alzarsi, perché due sfarzose Guardie Svizzere gli chiesero la cassa di pomodori per un morto) – … ma tu che mi ostacoli, tu che non mi perdoni, tu che combatti, tu mi piacerai sempre, vecchio Ippocrate.
Il maestro ci accompagnò fino al limite del Nutrimento, conversando con pacatezza, e senza una parola vituperosa per il suo avversario. Vide con molta tristezza un gruppo di trafficanti che, con la complicità di autorevoli personaggi, stavano qua e là bruciando con risa e minacce i severi avvertimenti scritti da lui e dai suoi scolari per limitare il flagello. Ci salutò per tornare indietro, dove la sua presenza era sempre più necessaria. Così necessaria, da essere ormai inutile. (pp. 81-85)
Da La carta è stanca, una scelta,
Adelphi, Milano 2000 (1a ed., completa, 1976)
418. I vegetariani
Non sembra facile, oggi, una difesa del vegetarianismo. Non solo tutti idolatrano il vitello carneo; il nutrimento alternativo, da contrapporgli, è scadente, povero e pericoloso. Nei catechismi vegetariani tradizionali si agita un mondo d’ombre. La polpa matura dei frutti, la potenza degli alimenti crudi, la virtù risuscitativa del miele, la perfezione del latte, lo splendore del burro, l’incanto dei formaggi, l’inesauribile bellezza del pane, l’eccellenza curativa del vino, la regalità dell’olio d’oliva, le profondità energetiche dell’uovo di gallina. Guai a sbucciare un frutto; lavare poco; seguire sempre i ritmi stagionali. In autunno, fra i tralci, a sguazzare nell’uva nera; noci umide di mallo, pannocchie di granturco dorate nel burro. Inverno: agrumi e castagne. Primavera: grandi vasi di fragole di bosco, condite con pòllini. Estate: tutto il giallo, tutto il rosso. E tutto piamente masticato cento volte, benedicendo la Natura datrice, fuggendo il sale, il fumo, il caffè. A Jasnaia Poliana era un regime possibile: ma qui, ora? Quei buoni manuali insegnano il ballo a una corsia di amputati. Nelle illustrazioni, donne sanissime aprivano le stanze ai raggi del Maturatore appena levato per il suo giro nei frutteti, mentre una bambina in fiore correva addentando mele non proibite, perché non sbucciate. C’era, a Praga, ai primi del secolo, una Pomologische Schule, una scuola di frugivorismo, che ebbe tra i suoi frequentatori Franz Kafka, vegetariano tra i più ascetici – crauti senza salsicce – finché la tubercolosi non lo costrinse a mangiarli con salsicce. Ma, a Zurigo, nella clinica Bircher-Brenner c’erano, per tubercolotici, speciali diete vegetariane. Un vegetarianismo di moltitudini, nel mondo occidentale, è impensabile, e quello di élite vive con difficoltà. Per essere vegetariani bisogna credere anzitutto in certi principia filosofici piuttosto estranei a questa cultura, e adeguarvi una disciplina igienica, uno stile personale di vita. Sembrano sogni: tutta l’Intelligenza europea studiosa e creatrice è un Mammut carbonizzato per quanto riguarda i problemi morali con proiezione e dipendenze metafisiche. Non parlo dei Russi: in loro qualcosa vive, da loro qualcosa di eterno ogni tanto arriva a confonderci e a ferirci; ma in Occidente sulle vivendi causas non si piega quasi più nessuno e la parola scritta, anche la migliore, porta con faccia suicida questa sua barbarie muta. Tra muraglie di libri, i letterati vivono come un presentatore televisivo o il più ottuso dei dirigenti industriali. Allora carne carne carne carne; finché ci sono bestie da ammazzare carne; quando saranno finite, provvederanno Burke e Hare: l’importante è che il piatto sia pieno, inoltre la guerra feroce della medicina contro il vegetarianismo ha scoraggiato molti onesti principianti, ai quali è mancato il cuore di sfidarla. «Se non mangi la carne muori!». La medicina vede il vegetariano come un suicida, che abbia scelto la zuppa d’avena invece della pistola a tamburo per finirla con ogni tipo di cena.
E poi siamo immersi in un’esaltazione continua e rabbiosa della sopraffazione dell’uomo sulla bestia e di chiunque sopra chiunque, e il nutrimento carneo è visto come il fondamento necessario di tutta la gerarchia della paura, è l’olio benedetto che consacra i re della vita. Perciò scrivo queste piccole note per incoraggiamento dei vegetariani timidi e per approvazione dei clandestini, punti di refrigerio nelle fornaci del carnivorismo. Da molti anni sono vegetariano e posso dire di averci guadagnato in salute fisica e mentale. Non ho perduto che le macabre catene del conformismo onnivorista.
Dati i prezzi del mercato delle carni, una famiglia volontariamente vegetariana galleggia meglio, può spendere in raffinatezze quel che risparmia in pezzi di cadavere, ha un bilancio meno pesante e lo stomaco meno guasto. Meglio sia un’intera famiglia a nutrirsi vegetarianamente, e non un solo componente, perché così non c’è separazione a tavola, tutti unisce in un magico circolo l’ideale comune. Siate diversi, sostanzialmente diversi da come vi vogliono, da come fanno essere! E per esserlo infallibilmente, bisogna cominciare dal nutrimento, tutto è lì. Il vegetarianismo familiare è un’ incrinatura sensibile dell’uniformità sociale, una piccola porta chiusa al male, in questa universale condanna a essere tutti uguali a servirlo. I bambini non sono problema: quasi tutti sono, spontaneamente vegetariani, e un vegetariano avveduto non li priva certo di proteina. La carne gli viene imposta dall’idiozia carnivorista degli adulti. I padri permettono ai bambini anche d’impiccarli, ma guai se respingono il piatto di carne! E dall’implacabilità dell’affetto deluso, le vendette più atroci! E quando una gaia coppia vegetariana scoprisse, in un figlio delle sue viscere, funeree inclinazioni carnivore dovrà reprimerle? C’è un destino, anche qui, e si può contrastarlo solo entro limiti di buon senso. Ma un’educazione vegetariana fondata sulla pietà e sulla bhakti, dovrebbe resistere bene alle violenze dell’istinto.
Un vero vegetarianismo esclude qualsiasi tipo di carni, e anche i brodi carnei, tanto meno consumabili quanto più consommés. È un modesto Verboten nell’immensità del mangiabile… La dieta vegetariana è di solito amatissima da chi la pratica, rare le riconversioni non forzate.
Il vegetarianismo, idea liberatrice, è da riproporre, ma i suoi vecchi testi sono da riscrivere tutti. Una separazione certa tra alimenti vitali e alimenti assassini non è più possibile, perché tutto quel che ci nutre riceve un permesso di nuocere dai demoni dell’inquinamento. Provati a cercare i frutti maturi! a mangiarli da sbucciare! E a fare la cura dell’uva non lavata! Sui vigneti, un teschio gentile ti avverte che i grappoli sono avvelenati. E riempiono ormai un grande cimitero, le ossa dei bambini assassinati da una mela, da una pesca prese nei campi! Frutti enormi, senza una macchia: immangiabili. Crescono sotto i calci del chimico, sovente al buio, i famosi alimenti solari dei vegetarianisti! Che cosa potrebbe fare la Scuola Pomologica? Contemplare rovine…
Che cosa sono nei negozi ortofrutticoli quei bubboni lucidi, deformi e rossi come nasi di ubriachi, esposti in piccoli bidè di plastica? Dai letterati ritenuti Fragole, sono in realtà ormoni capponati, fatti ingrassare tra due striscioline luttuose di plastica nera, truccati da fragole per compratori che tanto non ne vedranno mai una. Gli agrumi, le patate… Non si creda che soltanto le bucce siano pericolose.
Il vegetariano è colpito nei punti del suo antico giubilo, bisogna ammetterlo. Impegna allora un combattimento strano: mentre arricchisce la sua dieta di rinunce, esplora l’ignoto in cerca dell’incontaminato. Batte le campagne per trovare un vero uovo, nei misteri della città scopre un formaggio lunare. Vita di monaco vagabondo, non priva di attimi radiosi. I funesti prodotti del terricidio li schiva con ribrezzo.
«Se il vegetarianismo è così difficile, perché non la carne?». Perché se il vegetarianismo è oggi purgatorio, la carne è due volte inferno. Una tabellina del grado di sconsigliabilità degli alimenti, così come sono oggi in natura e in commercio, non avrà ai primi posti quelli del vegetariano, ma dell’onnivoro. Si sa che cosa sono le carni in genere: quel che c’è di più devitalizzato, di più sporcato dai medicinali (antibiotici, estrogeni, tranquillanti, antitiroidei) tra i prodotti alimentari. L’allevamento del bestiame non ha scrupoli per raggiungere i pesi e i profitti desiderati.
Ripulitelo, lucidatelo quanto volete, il mattatoio, chiamatelo Paradiso dei Millefiori: sarà come versare i profumi d’Arabia sulle mani di Lady Macbeth. Meglio che abbia odore di morte, che non mentisca, che si possa vederla, toccarla e mangiarla, la sua misteriosa somiglianza con l’uomo. Il mattatoio è la nostra ombra; qualsiasi città, Stato, società civile proietta quest’ombra che impoverisce la luce dell’astro. Fatelo periferico, chiudetelo sottoterra: sarà sempre dietro ogni porta, e la sua presenza ci maledice tutti.
E tuttavia il mattatoio non è che il beato punto finale di un transito nell’esistenza tra i più tormentosi. L’allevamento industriale, col suo commercio mondiale, è una planetaria camera di tortura: i lunghi viaggi strazianti per mare e ferrovia, le isterectomie per mettere i feti nelle incubatrici, le continue iniezioni, le fecondazioni artificiali, le nutrizioni intensive, impregnate di orrore chimico, nel buio e nella semiparalisi, per fare lombi più grassi e carni più anemiche, i terrori, le catene, le mutilazioni, ne sono i principali strumenti. L’allevamento all’aria aperta è quasi scomparso, e l’animale nasce e muore in una prigione perpetua.
Vedere l’eccellente lavoro inglese edito da Bompiani, Il dominio dell’uomo di Hutchings-Caver (naturalmente, se n’è parlato pochissimo), capitoli 7 e 8, che tuttavia non contengono che un panorama di orrori limitato (gli autori non sono vegetarianisti) e, per una idea di un grande mattatoio, quel che scrive Mailer degli stock yards nella sua cronaca della Convenzione di Chicago del ‘68. Sugli alimenti contaminati, carni e no, c’è l’importante saggio di Maurice Pasquelot, La terre chauve, edito dalla Table Ronde.
Argomentando della tossicità delle carni, non va trascurato quel che l’analisi non può rivelare: l’energia negativa di cui è imbevuta ogni molecola di un essere sensibile trattato come una quantità inanimata, il concentrarsi in chi se ne ciba dei residui psichici del suo terrore e della sua disperazione. Lamenti di macchine da allevamento, miserabili lamenti di bruti subumani che cosa contano? Siamo una civiltà cartesiana: l’animale è come un orologio, puro movimento automatico, niente anima… Trattiamo anche noi stessi come quantità inanimate. In questo c’è giustizia. (pp. 64-70)
419. […] [Male di laurea] Università è seme di malavita, di storpiature e brutalità della mente, di fame di vento. Incorporata nella malattia della grande e sterminata città, dove è giusto che seguiti a schizzare i suoi germi di Sapienza afflitta dai mali del Pistoia e degli Accademici di Bedlam, non può crescere a spese della città piccola senza disfarla.
Fatevela e vedrete. Contaminando una civile popolazione con germi universitari, sarà la fine della buona alimentazione locale. Arrivano le nutrizioni senza volto, l’olio e il vino schifosi, si aprono le immonde rosticcerie e i micidiali supermercati, gli studenti mangiano tutto, hanno la colica permanente stampata in faccia. Allo stomaco rovinato corrisponde cervello guasto. Come lo stomaco fa merda di pizze, polli, patate fritte, cornetti, polpette, bigné, spaghetti innominabili, così il cervello si trangugia cretinismo politico, vernice scientifica, slogan latrinario, odio insulso, amore balordo, pubblicità, carta, ultrasuoni infernali. Il prodotto di tutto questo è un malato, un tipo generalmente aggressivo e melenso, stupito di ritrovarsi disoccupato e insignificante. È filantropico fabbricare tutto questo? […] (pp. 144-145)
Da Il silenzio del corpo, Adelphi Edizioni, Milano 1979
420. Tutto quel che non si mangia, fa bene alla salute. (p. 28)
421. […] Il marronismo alimentare deve aver fatto calare molto il consumo ebraico di cipolle, e nell’attuale Israele il cancro, ignoto alla vecchia Palestina, sciama come le api di Sansone: e poi dappertutto s’irradiano le cipolle al Cobalto 60! Procuratevi cipolle non irradiate e consumatene enormemente: salvano da tutto, eccetto che da qualche incantesimo. Mali di reni, asma, diarrea, stitichesta, epatiti, foruncoli… Ho la ricetta di un cepologo contro gli attacchi di nervi: una cipolla tagliata in due, fortemente respirata, li ferma. Altri testi indicano specialmente, come profilattico del cancro, l’aglio. Certo, chi non mangia né aglio né cipolla si priva di due formidabili scudi. […] (p. 28)
422. Un tè allo zenzero fortifica la vista interna, allarga la capacità dell’occhio sepolto, fa dire allo spirito dov’è entrato: io posso. (p. 30)
423. È meglio morire svuotandosi che riempiendosi, e meglio di fame che d’indigestione. (p. 33)
424. Descartes (Passions de l’âme, art. 97) dice che l’amore, quando non è triste né troppo forte, è utile alla salute: il polso batte bene, al petto si prova un calore dolce e «la digestione delle carni si fa rapidamente nello stomaco » (mentre l’odio le fa vomitare). Implicitamente è riconosciuta l’indigeribilità delle carni, se occorre essere felicemente innamorati perché lo stomaco le trovi possibili. Omnia vincit amor. (p. 123)
425. Scriveva Kafka a Ottla dal sanatorio di Matliary di essere stato triste «come una iena» per aver ceduto alla tentazione di mangiare sardine con patate e maionese, e vedeva una iena che trova una scatola di sardine, la apre a zampate e divora i cadaveri. Solo un vero vegetariano è capace di vedere le sardine come cadaveri e la loro scatola come una «bara di latta»; un mangiatore di carne (non mi sento di scrivere «un carnivoro» perché l’uomo non è un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C’è come un velo sulla retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull’anima, che gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di carne o di pesce. In Occidente, quasi tutti hanno occhi e cuore bendati, ma stranamente la vista del cadavere non è il privilegio di esseri superiori. Leonardo, Tolstoj, Wagner, Kafka lo sono, ma in genere nelle associazioni vegetariane non tira aria di vista superiore. Il caso di Hitler merita attenzione; forse era vegetariano per imitazione di Wagner, o più probabilmente aveva un amor mortis intellectualis, di visionario necrofilo, e l’avvicinamento materiale della bocca all’esca necrofagica gli ripugnava. Inoltre la vista di un essere demoniaco può non essere inferiore, in certe cose, a quella di un angelico. Sapere vegetariani Leonardo e Kafka, soprattutto, mi dà frescura: si muovono, nel mondo contaminato, incontaminati, portando una luce non mescolata alle candele piene di lamento, alle lampadine fosche del mattatoio e della stalla sacrificale. In un’altra lettera a Ottla, parla di un sapone che nella sua stanza diffonde profumo da tutti lodato e commenta: «Nella mia vanità mi sarebbe piaciuto spiegare il fatto col mio rifiuto di mangiar carne». È certo che non mangiarne migliora l’odore, della persona, almeno in vita, e sia per questo che per l’eccezionale purità del cuore, Kafka doveva essere μυροβλύτης. Scintille odorose sprizzava il corpo secco, scarnito dentro come di fuori, di Santa Caterina, che emanava il giglio, la rosa e la viola. Ma essere vegetariani non basta: il burro, i formaggi sono carni incruente, nell’uovo c’è molta carne come in Cesare molti Marii e un sangue dove sali e zuc-cheri si trovino in eccesso esala vapori tetri. Il pane è figlio del fermento: fabbrica cattivo odore. La natura è però sempre ambiguissima: grandi, necessari, solari purificatori, l’aglio e la ventosa cipolla generano pesanti aloni e gas; c’è in loro lo zolfo, che è inferi, e una droga oscura che suscita le ombre dei sogni. Figli del cielo sono l’olio d’oliva, il miele, il riso, il tè. Impossibile che da alimenti così luminosi possano nascere cattivi odori. Il fungo è un mistero: impastato di luce e di materia, il metabolismo individuale ne cattura secondo l’inclinazione prevalente materia o luce. (I volgari mangiano arrosto e funghi, così massacrandone le molecole luminose). In un certo senso mangiare funghi è antropofagia, perché il fungo ha qualche analogia col microcosmo umano. Un’antropofagia simbolica può essere buona o cattiva, perciò occorrono molte cautele, non solo quelle della distinzione volgare tra mangereccio e velenoso. (La micologia è scienza sacra). Il tartufo è carne di terra, cadavere mummificato, escremento vegetale, fabbrica di fetore. (pp. 169-171)
426. Il Tè e l’Aglio sono ugualmente divini: ma il Tè proviene dalla Sefirà Binà (Intelligenza) di Dio, l’Aglio da Din-Gheburà (Giustizia-Forza). Il Tè dovrebbe essere bevanda dei buoni, dei calmi, dei vcggenti; ma lo bevono anche i cattivi, gli irascibili, i pazzi: è un punto a favore della neutralità morale di Dio. L’Aglio è medico universale, ma non sono pochi ad aborrirne le cure: sono quelli che rifiutano di essere salvati. Il Tè non discrimina; l’Aglio sì. È delizioso, dopo aver mangiato alimenti mescolati con aglio, bere tè; ma non bere vino, è un funesto errore. La cattiva compagnia del vino trasforma l’aglio in un sicario, in un fumo di taverna. È da fuggire chiunque mescoli all’aglio il vino, perché porta disordine e corruzione. (pp. 187-188)
427. Non bisogna avere che relazioni superficiali con chi respinge agli e cipolle, perché si tratta di caratteri incapaci di profondità. (p. 188)
428. Il vero, nudo vizio della Gola non è la passione per la quantità, né per la raffinata elaborazione, né per la magnificenza superflua o la sanguinosità-alcolicità-zucclierosità degli alimenti. Queste sono caricature; elementi da pittura morale, gesta antiche del ventre, volgarità ricorrenti, orrori da ridere, letteratura trimalcionica. La Gola è una passione quasi astratta. L’oggetto può essere umilissimo e scarsissimo. Ma è la pregustazione gioiosa, l’attesa misteriosa e tacitamente smaniante, senza speciale impulso di fame, ad annunciare il vizio. Là, una cipolla bollita con un poco d’olio e di uva secca, un broccolo verde cotto senza sale, un uovo crudo, un riso scuro con prezzemolo, un piatto di maccheroni senza sugo, una ciotola di orzo tostato, un mucchietto di fagioli bianchi, una polenta di mais… I grimoires dell’Alta Cucina neppure le nominano, i palati incestuosi le schivano, ma il gulosus in me si accende per queste cose, e sono fiamme feroci, mentre inutilmente dico: non sono un asceta, a chi mi crede asceta. Sono un asceta raté (forse anche un raté asceta). Un vero asceta, se un brodo di cipolla caldo gli mostri le mammelle e l’ombelico, resiste meglio di Ippolito. All’odore dell’aglio, delizia tra le più marrane, fa le fiche. La perfezione diabolica dell’uovo di gallina, appena tolto dall’acqua bollente, col suo bianco spermatico che Giobbe dice insulso (un agiografo può sbagliare), col suo rosso che ricorda le lingue di fiamma dell’Ade, resta estranea ai suoi testicoli immoti. O Shiva sul monte Meru! O Padri greci del deserto! La forza di dire no, di digiunare avendo su un tavolo con mantile bianco (se la tovaglia è scura la voglia scema), qualche patata calda e un tè bollente! (È il caldo che attira la gola, è molto meno attrattiva una vivanda fredda, gelata è disgustosa). Gana dice il castigliano, incarnando la voglia nella bocca aperta, secondo l’etimo gotico, o nelle canne bramose, secondo il latino: la voglia delle voglie è lì, nella gola, a cui il vecchio che non si è esercitato a domarla riduce tutto il suo pensiero, spasmodico filo della Brama di Vivere attaccato a un tubo. Il mostro aggredisce anche se si dispone di pochissimo per soddisfarlo, purché piaccia (parlo di solo vizio, non di fame): a me basta una mela, purché sia una renetta. Profumo di mela nei dintorni del naso: Gola si torce come una partoriente. Nella calma di una stanza d’albergo, mentre in altre cinquanta stanze tra il primo e il quarto piano cento gole addominali (forse centodue) si strofinano tra loro per spremere qualcosa di vago e di abbattuto, alla luce dello stesso riverbero esterno o dell’unica veilleuse collocata dalla Direzione, il goloso estrae dalla borsa un vasetto di yogurt, lo profuma di miele, si taglia una fetta di pane col coltellino. Gana! Tanha! Altro che piccoli piaceri di Epicuro! Enormità dei piccoli piaceri! Totalità del piacere nei piccoli piaceri! Fantastico Pleroma di tentacoli nei piccoli piaceri! Infinità, voraginosità, perdizione dei piccoli piaceri… (pp. 192-193)
Da Un viaggio in Italia, Einaudi, Torino 1983
429. […] [piazzetta di San Giovanni in Campo] Bellezza pura della povertà: un banco dove si vende agli (ne compro un paio), terrecotte bruttissime e frustine fatte con un bastoncino dipinto e un po’ di spaghi ritorti. Anche la lotteria, nel vecchio oratorio, è povera è stupenda sotto il cartiglio Laudate Dominum pueri. I pueri, in lode del Signore, s’ingozzano di porchetta e gelati. […] (p. 21)
430. […] Caffè degli scacchi, in via Pietro Micca, C’è un vago odore di fritto con aglio, eppure qui non si fa cucina; uno scacchista non pensa mai a mangiare, è una mossa, non uno stomaco (neppure un cervello, è un bruto). […] (pp. 23-24)
431. […] Alla trattoria Monferrato, l’oste vuol sapere perché non mangio la carne. – Però non mi dirà che è contro la caccia! La caccia è la salvezza dei raccolti, rinnova la specie, è utile, è necessaria! – Non dico proprio niente, occupato in una collosa pasta in bianco, desideroso di tranquillità. […] (p. 25)
432. […] Questa Maria di Campagna, prima dell’invasione degli automi, doveva essere meravigliosa, il Po vicino, i campi senza fine, il Borgo affettuoso che l’abbracciava. Alla messa serale assistono solo vecchi, alcuni con facce di dementi. Sul fianco è l’Ospedale Psichiatrico. Muri: DI QUI SI ESCE PAZZI O SUICIDI. L’ O.P.P. HA UCCISO AMICI (probabilmente è Amici, ma è più interessante che siano parecchi). Sulla porta della cattedrale, il vescovo metteva in guardia, in tre lingue, contro pretese apparizioni e miracoli in San Damiano, ma il manifesto è di un anno fa; il solito assassinio ecclesiastico del sogno. Stasera avrò per cena zucca gialla bollita insieme a due fichi con pane e olio. […]
433. […] [Siena] La Madonna di Della Robbia è superba bellezza, è una Venere vestita, che s’indovina nuda. La ruberei volentieri, se non avessi pietà civile. Compro zucca al mercatino del Campo, per cena a due di San Silvestro in camera. Poca luce. […] (p. 53)
434. […] [Siena] In camera mi faccio un po’ di zucca con fiocchi d’avena, mangio questa zuppa con molto pane, dormo un’ora, mi scaldo il tè, godo di voci piacevoli dalla via di sotto. La finestra guarda su San Domenico.
Arrivata E. per la cena di San Silvestro mangiamo loin de la buie impure miglio e zucca, finocchio crudo, ricotta con confettura di castagne, cavallucci di Siena, olive, poi tisana di eucalipto. Fuori, tutti addosso ai ravioli e alle povere bestie massacrate per festeggiare tra nuvolaglie di fumo e stappamenti di micidiali bottiglie. Alle sette mi sveglia lo scampanio. […] (p. 54)
435. […] [Genova] Ricompro pesto e ricotta e mangerò in camera come ieri sera. […] (p. 60)
436. […] [Genova] Friggitoria in via Giustiniani; onestamente ti avvertono: «Tutta la cucina è all’olio di colza». Ordino farinata che non mangerò, vino bianco che non berrò, per poter restare a un tavolo, col piacere di udire il raschietto che raccoglie dalla teglia la farinata, lo stropiccio rapido e sapiente dell’incartocciamento. La sala è tradizionale, tutta piastrellata di bianco. – Quando la Bigiolli si è maritata… – Poi lui è morto… te lo ricordi, che eran tutti lì… – (Si annunciava come una lunga storia, invece si arresta di colpo, per sincope). Una vecchia sta divorando grandi cucchiaiate di zuppa. L’onnivoro Alcmane (παμφάγος Αλκμάν) amava la polenta di ceci (τό έτνος: paniccia o farinata). In neogreco η αλευριά è la farinata. Senza ceci non c’è luce mediterranea. […] (pp. 69-70)
437. […] [Firenze] Cenato in camera con broccoletti di rape all’olio. Fastidiosa piaghina perineale. Voglia di star solo, di non costringere a sopportarmi nessuno e di non dover sopportare nessuno. L’Angelico, domani, mi dirà che Dio è la verità, ma si può credere a un così grande ingenuo? (p. 74)
438. […] L’Idiota dice che la Bellezza salverà il mondo, Eraclito che verrà il Fuoco per giudicarlo. Dai segni che vedo, dalle tracce che scopro, da quel che indovino nell’ombra del perduto, la Bellezza è un Messia venuto; e il mondo non è stato salvato, la tenebra non poteva afferrare la luce, solo farla simbolicamente morire. Ora nessuno l’aspetta più, se non è Idiota; ma è ragionevole aspettare il giudizio del Fuoco: la giustizia viene sempre ultima. Quando il Fuoco verrà, dirgli di aver capito qualcosa della Bellezza, di averla sempre cercata, forse ne attenuerà il rigore.
L’errore dietetico fondamentale risale al peccato originale, che consiste nell’essersi provocata una grave indigestione. I due cacciati di Masaccio sono una coppia di sciagurati con lo stomaco pesante (lo si vede dalle smorfie) che l’angelo destina a un disordine dietetico dopo l’altro, dopo quella prima madornale indigestione. Mai l’uomo potrà avere dieta perfetta, dopo essere stato reso per sempre imperfetto da una cattiva dieta. Riscopriamo il valore della buona dieta (naturismo, vegetarismo ec.) quando ormai nel mondo l’alimento è condannato a sempre più contaminarsi tra i veleni infiniti prodotti anche dagli errori dietetici di innumerevoli generazioni; qualcuno ha l’idea della purità e il nutrimento puro gli è già sfuggito di mano. […] (p. 78)
439. […] [Pistoia] Voce del televisore dell’albergo: «… Anna Magnani è stata una grossa sfinge… forse la più grossa della storia del cinema…» Mangio in camera carote di piazza Santo Spirito e ricotta di pecora. Cattiva siesta con continui tranghiottimenti di saliva, penosi. Mi sveglio dopo ben due ore e mezza di questo scabroso riposo, mi faccio il tè e corro a confortarmi in Santo Spirito ma già erano spuntate le chiavi, sosto sulla piazza, ascolto campane, guardo tra i rametti nudi la luminosa facciata. […] (p. 80)
440. […] Mangiato in modo eccellente da Giulio in Pelleria: zuppa di farro, polenta, bietole, olio eccelso. Soltanto a Lucca si può mangiare così bene. Vicino a me un bel vecchio sicuramente intelligente, dipinto chissà quante volte dai pittori nordici di taverne, fumava con sapienza, aveva l’aria di aver molto goduto e vissuto. […] (p. 83)
441. […] [L’Aquila] Forse, in tutta la città, io solo ceno da Venerdì Santo; in camera, con caciotta fresca, fiocchi di mais, una carota cruda. Ai cristiani le salsicce. Plenilunio. (p. 95)
442. […] [Messina] Da una stanza vicina mi arriva il russare regolare di qualche immane Behemot. Mi faccio una tisana lassativa con fiori d’arancio e miele. Pessimo albergo. […] (p. 106)
443. […] Cenato bene a Catania da Pagano, carciofo al forno, purée di patate, ricotta, carote grattugiate. Fine calma di una giornata poco interessante. […] (p. 115)
444. […] Gli do un po’ di diavolo per la sua fatica, e colloco il talismano al riparo dalle diaboliche sgrinfie. Rinfrancato dal simpatico Mago, ceno con ottimo appetito da Pagano con due piatti di minestrone. […] (p. 125)
445. […] [Saluzzo] «In questa casa nacque Silvio Pellico il 25 giugno 1789». Aveva venti giorni, Silvio, quando la Bastiglia fu demolita, e già era nelle sue Prigioni, le dande. Ceno civilmente al Persico, minestrone e insalata con uovo in camicia. Poi lunga passeggiata notturna. […] (p. 154)
446. […] [Genova] Tra buoni odori di minestrone conventuale spunta la splendida barba del Padre Cassiano cappuccino che mi mostra l’esemplare rarissimo dell’edizione genovese 1551 del Libro de la vita mirabile della Beata Caterinetta da Genova. Compro la ristampa anastatica, in vendita dai frati. […] (p. 165)
447. […] Scendo a Chiusa. In una veranda piena di calma, troverò una minestra calda… Un’ottusa e sgarbata muliercula tedesca mi serve una mediocre zuppa; me ne vado subito. […] (p. 188)
448. […] Tra una folla annebbiata e contenta, che arriva fin qui in macchina per i riti della domenica, lordando tutto, consumando ininterrottamente caffè e bevande ghiacciate, è la visione sublime delle cascate del Nardis coi ghiacciai, in fondo, dell’Adamello, immagine di Abisso sapienziale, che schiaccia senza opprimere, anzi liberando. Non so come si possa pensare a mangiare e bere in un luogo come questo, di pura ascesi… Il suono della cascata è più profondo di qualsiasi respiro d’organo, il vento d’acqua che ti flagella la faccia è un battesimo di luce. Il pensiero della Trascendenza assoluta ne emana naturalmente, la Realtà è quella, non c’è altro. Se la sua potenza ci uccide, come ci genera, ne ha ben diritto… E questi imbecilli si fanno le foto a colori… espongono le schiene al sole… Eccone un bel grappolo: sono quindici, tutti contenti, il ponte, la cascata… Le macchine sono tante che sulla strada si è formato un groviglio impressionante, provocato da due dinnosauri con la pancia piena di turisti che smaniano di fotografare e di gettare mozziconi nella cascata. Deliri dei capifamiglia al volante, imprecazioni, ritardi… Un’immersione nel volgare puro, dopo un attimo catartico, un raro attimo di benedizione. (pp. 195-196)
449. Peccato rimettersi in corriera. Leggo in Isonzo 1917 l’incredibile battaglia dell’Hermada. […] (pp. 195-196)
450. […] Vecchia osteria superstite sotto i portici di Verona; si beve solo vino. Ordino un quarto di bianco ma dalla borsa tirerò fuori un succo, molto migliore, di carota. Se bevessi del vino stramazzerei. (Temo però di dare scandalo a questi vecchi bevitori). […] (p. 197)
451. […] Una corriera finalmente mi porta a Pieve di Porto Morone; vedo le torri della centrale Enel, laggiù, ma non passiamo il Po. Credevo di trovare la fiera, invece nessuna festa, il vuoto. Al bar Nazionale bevo un dito di birra tedesca e mi domando a chi può piacere questo bere immondo? […] (p. 207)
452. […] [Pavia] Un infuso di menta tiepida senza miele, seguito da un breve riposo, mi ridà gli spiriti. Impressionante è la città deserta, se pensi al motivo che la fa vuota: sono tutti davanti ai teleschermi. Non c’è una macchina. È un silenzio privo di calma, potrebbe sopravvenire il fuoco nucleare. Molte trattorie chiuse, nella certezza che resterebbero senza clienti. Mi vergogno dovermi occupare di queste futilità ma il fenomeno prende alla gola, un’intera nazione che si rintana in casa davanti a un ordigno parlante per nutrirsi di pallone. […] (p. 209)
453. […] Sto a guardare e ascoltare, tra odori di decomposizione animale, contento di aver fame e di non mangiare. Tutti parlano di cucina… Quattro suore e una paralitica, sulla piazza, leccano gelato. Prima di annoiarmi troppo, trovo una simpatica coppia che mi ospita in un’auto molto rauca e piena di polvere che stenta ad avviarsi, mi friggono nell’olio nero della loro musica correndo a velocità suicida, a tempo per un trenino che da Moncalvo mi riporta a Casale.
La sovralimentazione va tutta in pazzia. Non produce tanto adipe e malattia coronarica quanto demenza. Fa impazzire come la fame. È l’alimentazione sobria, equilibrata, che nutre la saggezza. Nello squilibrio alimentare c’è la radice di molta violenza; gli diventa sempre più difficile digerire la vita… […] (pp. 215-216)
454. […] Cenina al Paiolo di Vercelli (tortelloni magri, fagiolini dell’orto, salsa verde piemontese), squisita e non cara. Via dei Pelipari (ci sono anche i Peli Dispari?). […] (p. 216)
455. […] (24 settembre). Sono a Padova, dove ho cenato pessimamente, con fastidiosa corrente d’aria fredda dalla porta spalancata che il cameriere sgarbatamente si è rifiutato di chiudere. Ormai quasi dappertutto immangiabile la cucina italiana, fatta di scarti, senza più idee, misurata sul gusto indecente del turista-di-massa, una cucina aziendale, fatta per pagare tasse di malavita, con pane infame, vino da crampi… l’eterno sugo di pomodoro…
Venezia, 25 settembre. E. V. ECOLOGISTAS VIOLENTOS BRAZO ARMADO ESPAÑA 1982. UN ULTIMATUM DA PORRE A ISRAELE. È l’una di pomeriggio, Venezia è tutta un solo enorme ventre, un laboratorio di masticazioni. Passo un paio d’ore al caffè Florian correggendo bozze, dopo essermi schiaffeggiato con un caffè per non soccombere al sonno. Una grossa virago straniera con grandi occhi pazzi mi fa domande da un tavolino vicino: – Lei è scrittore? Che cosa scrive? – Proprio la domanda giusta; non avrà risposta. – E ungherese? – (Tutto quel che so di ungherese è «Violino tzigano», di Bixio). La prego di lasciarmi lavorare in pace: si rivolge ad altri. Quando esce mi saluta con una smorfia di malaugurio, sordamente furiosa. Probabilmente una strega danubiana. Nella sera dolcissima, proseguo il lavoro fino a tardi sui gradini di Santa Maria Formosa tra voci (voci, finalmente, solo a Venezia vive ancora la voce umana) di bambini. Appena fa scuro, tutti a mangiare di nuovo… Anche qui costretto a cenare malissimo, roba cattiva in un mucchio di sale, ma per poco denaro. IL JUDO ITALIANO PUÒ DARE UNA MANO ALLA SCUOLA (meglio che gli dia un buon pugno e la spedisca nel canale). Rientro a Padova con treno notturno: brulica di arabi, che lasciano in tutto quel che toccano l’impronta del caos, il degenerato fiato mediterraneo. (p. 219)
456. […] Con la brezza serale arrivano i fumi di Marghera. Cenato in un’incredibile marea di divoranti alla Madonna, pasta e fagioli e subito via, mi pareva di essere chiuso in una trappola per topi ignari, premuto tra il fumo le risa le musicacce i suoni delle lingue barbare, un assaggio di sepolcro, col mondo sopra, che ride ride… Venti o trenta brasiliani annegati nell’ottusità ballano e cantano nel loro abbominevole idioma davanti alla stazione. Molti piedi, nessuno senza odore. Un orribile guercio con un bastone mi sta fissando, certamente per farmi l’Occhio. Gli faccio fiche mentali e visibili. […] (p. 224)
457. […] [L’Isonzo a Gorizia] Mercatino delle contadine slovene in un cortile, ciascuna con poca roba, ma tutta bella e pura, pomodori, uva, fichi, rape, zucche, uova, facce nobili e pulite, denti malandati da cui esce la verità; molti fiori. Compro qualche fiore, mangio nove fichi. (30 settembre)
Al N. 8 di piazza della Vittoria lapide ricorda che lì nacque e morì il 17 ottobre 1910 Carlo Michelstaedter. È glorificato come «l’aurora di un nuovo giorno»; ma che cosa c’è di aurorale in Michelstaedter? Fu triste, crepuscolare, saturniano fino al suicidio a ventitre anni. […] (p. 227)
458. […] [Stazione di Montesanto] Un pacifico scalo ferroviario da cui comincia una lunga galleria che sbocca nel mar del Giappone, la sensazione di essere sorvegliati sempre, seguiti, fino a perderne realtà, consistenza, equilibrio. Compro quattro mele, uva e fichi neri dalle contadine slovene. […] (p. 255)
459. […] Il garage galleggiante NOMENTANA mi caronterà di notte fino a Napoli. Ci sono le stesse facce dei treni, ma con molto più spazio e la possibilità d’isolarsi in cabina. […]
Nessuno canta… Televisori, biliardini elettrici, cinema (film: IL FICODINDIA), piatti caldi che non cambierei col mio orzo fumante nel thermos. Giù, tra le corazze enormi, una città di automobili vigilata da tutori in blu. Chi dice più una preghiera partendo su una nave simile? Neanche sul TITANIC nessuno avrà pregato… Ma ormai, col radar, anche l’Iceberg vagante è un fantasma da ridere… […] (p. 261)
460. […] [Napoli] Da Ciro in via Santa Brigida si può mangiare decentemente; si sta un po’ stretti ma con simpatia. […] (p. 268)
461. […] A Lucca ero un anno fa, stessi giorni di marzo, stesso albergo, e piove come allora. Cenato con zuppa di farro, bietole e ceci da Giulio, luogo che dà calore. La grande calma che hanno nel servirti spegne il trambusto.
Volto Santo. Stamattina ha intorno un forte odore di segatura e di detersivo. Ai piedi della gabbia che lo custodisce – come fosse una Tigre e non il Verbo, o perché la Tenebra non lo raggiunga – bottiglia di Candeggina Biancospino. […] (p. 285)
Da Albergo Italia, Einaudi, Torino 1985
462. […] Ci sono stato [a Venezia] di sabato e di domenica; faceva ancora caldissimo. Non erano vaporetti quelli: erano piramidi umane. Indiani, giapponesi, africani, americani; tutte le Europe, tutti gli Orienti e gli Occidenti. Facevano la fila per entrare in San Marco come per sedersi a un tavolo e mangiare; assottigliavano tutti gli scalini. Sulla piazza, c’erano bande per stordirli, orchestrine dei caffè per fargli sborsare di più, i nuovi transistors giganti inventati dalla criminale industria giapponese del Rumore. Non scoprivano: coprivano Venezia. Un tè di bustina, miserabile, con musica di Vedova Allegra: quattromila e cento.
Ci sono vari gradi nella fisionomia melensa: il primato ce l’ha il turista giapponese. Vederli mi costerna, mi dà voglie di suicidio, di sparire da un mondo che estrae dai materni travagli automi così perdutamente felici di adoperare una Leica. Dopo ci sono gli olandesi, alti, altissimi, impenetrabili alla luce come le loro palle di formaggio, ben nutriti fino all’abbrutimento. È cosi, pressapoco, priva di qualsiasi luce di di sguardo, quasi tutta la gente nordica, vecchia e giovane, salvo gli inglesi, qualche francese dei dipartimenti meno fradici. Oh Dio, che Europa! È fatta per le catene, altro che libertà! Solo le scogliere di Dover non sono in vendita (forse), tutto il resto è comprabile… Queste donne del Nord! Draghi biondi emersi da un’acqua sozza, inodori eppure sudici, di una sudiceria invisibile, innocente, prodotta dall’inesorabile secrezione dell’inerzia morale, dalla mancanza completa di uso del dubbio morale; l’alimentazione a base di patata, cavolo, maiale e zuccheri, di cibi inscatolati, di frutta esotica maturata nei frigoriferi, di latte munto dal chimico, è come una fucilazione continua dei centri immateriali, dei luoghi vitali della coscienza. Pudore in malore! Stanno sui gradini a ginocchia divaricate, userebbero le mutande come posacenere, se non ci fossero le pietre corrose, le concavità spirituali della pietra che ha spremuto tutto intero il suo canto. […] p. 16
463. […] Si mangia dappertutto, a Venezia, e malissimo. Forse solo un paio di ristoranti resistono ancora alla piena, a malapena restando di qualità; gli altri sono squallori. La stupidità turistica è rivelata subito, infallibilmente, dall’onnivorismo acritico, di cui approfitta con crudeltà il trafficante di piatto pieno. Il giapponese che crede di mangiare pesce fresco dell’Adriatico è servito di surgelato dei pescherecci oceanici dei suoi porti, trattato al cobalto a bordo appena tirato su – però a Rialto! In frezzeria San Marco! In calle Specchieri! A San Moisè! A Cannaregio! Alle coppie simpatiche, quando le vedo ai tavoli, studiare con candore la carta bugiarda (settuagenari che tornano a Venezia per la centesima volta, il ragazzino e la ragazzina in cui vive ancora il sorriso e che si guardano senza noia) vorrei avvicinarmi, avvertirli, attenti cari, non cascateci, vi guastate l’anima, digiunate per un giorno, contemplerete Venezia con occhi più limpidi, vi scongiuro non bevete quell’orribile vino, vi soffoca la vista interiore e non ne avete che un barlume… No, non posso farlo, non capirebbero, forse risponderebbero, pur così simpatici a vedersi, sferrandomi un pugno al naso che mi sanguina con speditezza, o mi disonorerebbero con offerta di denaro, credendo che voglio sedermi al loro posto e ordinare ignobili spaghetti alla carbonara. Per evitare equivoci e dolori, dimenticare subito di aver pensato a una buona azione. […] (pp. 17-18)
464. […] Ho una quantità d’indirizzi e di telefoni triestini, alcuni proprio mai, altri pochissimo adoperati: mi sono piovuti, mi ricordano vita acquistata, passando di là per caso. Se ci vado, mangio al club vegetariano di via Venezian, che ha il nome di un diffuso contracettivo meccanico. È rude eppure penetrato di un fuggitivo sorriso. Si mangia a un unico tavolo, portandosi il vassoio dalla cucina, senza che nessuno ti rompa quel fragile momento meditativo con ciance importune. […] (p. 27)
465. […] Ormai astinente dal vino, […] non hanno neppure trovato, in casa mia, qualche buona bottiglia per festeggiare […] (p. 159)
Da Briciole di colonna, Editrice La Stampa, Torino 1987
466. A cena da Cesaretto (5 agosto 1980) […] Ho frequentato Cesaretto con una certa assiduità tra il 1965 e ‘70, mai una sola volta che non mi appioppasse bruciori e difficoltà gastriche, pur nei limiti di una zuppa e di un piatto di legumi, a volte con frittatina. Gustosi, non volgari, quei piatti: però del cucinato di cui, sinceramente, chi ama se stesso è meglio non si fidi. Economicissimo, onestissimo, ma attenti ai suoi fritti, alle sue crocchette, alle sue besciamelle. Insomma, cucina comunissima, però fatta e servita con simpatia umana, e la simpatia migliora tutto eccetto il pane e il vino. […] (p. 20)
467. […] Hanno da poco aperto un bottegone di formaggi. È sepolcrale e asettico. L’epoca angelica del formaggio è finita. La tendenza è, dappertutto, a venderlo in spacci simili ad Alberghi Diurni blindati, dove urina soltanto chi ha la scorta armata. I prezzi li fissa la Banca d’Italia, in base alle quotazioni dell’oro più Iva, più Zero Cinquanta, più supplemento sale e tassa sui batteri fermentativi. Oh non mangiate, non mangiate formaggi!
Darò dolore a molti, ma il formaggio non è un alimento dei più raccomandabili. L’ho capito tardi, ma in tempo. Qualche latticino fresco ogni tanto, se magro, e purché non estratto da quelle tenebrose vetrine… Ma il culto italiano per il Cacio sarebbe bene calasse, a mala pena è digeribile per i topi. Non siamo più Sanniti, né Piemontesi delle grange. Il formaggio vi riempie di cerumi, di catarri di calcoli epatici, di muco del malaugurio; vi fa pesanti e scontenti, col fegato che non arriva a smantellare i conservanit chimici. Evitare i francesi – quei fetori ultramontani più falsi del lume eterno del sepolcro di Tolomeo, che il finto Armeno vende all’Antiquario di Goldoni. Evitate la Cee, e anche il prodotto nazionale industriale. Evitate le forme nere e le forme rosse. Evitate tutto. […] (pp. 21-22)
468. Custode e manichino (5 ottobre 1986) […] Da un centinaio d’anni l’uomo del Duemila è implacabilmente angosciato dal tempo. Andare in quei luoghi [i gabinetti delle stazioni ferroviarie] lo rattrista, specialmente se è in viaggio, perché lo ritiene un perdere tempo. Lo morde anche qualcosa di più sottile e profondo: il duemiligeno, appena svuotatosi, deve pensare immediatamente (attenzione: non per riflesso animale, ma per tormento psicologico) a riempirsi di nuovo.
Tutti quelli che passano per i gabinetti di una stazione subito dopo finiscono al Bar, dove impazienti, credendosi a torto assetati e affamati, buttano giù qualsiasi cosa liquida o solida, per riparare, dopo il sollievo fisiologico, al vuoto psicologico. Il loro sistema viscerale preferirebbe riprender fiato, ma il loro cuore di maledetti inseguiti inseguitori vuole che più niente, sulla terra, riposi. Così il Bar, nelle stazioni, è la luccicante prosecuzione dei Gabinetti con altro nome.
Adesso dirò una cosa ancora più acrobatica: chi va al bar ha l’impressione di recuperare il tempo perduto al gabinetto, quando in realtà non fa che perdere tempo e guastarsi sempre più reni e stomaco. Come custode illuminato, naturalmente, li metterei in guardia: «Senta, prenda subito un tram, non vada al bar». A chi rinunciasse al bar sarei capace anche di offrire premi in denaro: «Cinquemila, ecco qua, purché lei non prenda il cappuccino!» Lo farei perché mai dimentico quel libro di Daniele, che alla fine dei tempi «gli intelligenti capiranno». (p. 59)
469. […] Ma i romani non hanno mai conosciuto l’arte di vivere, e dalle mangiate di allora si usciva come da una tortura, perché c’era il garum, una salsa immonda il cui solo odore basterebbe a sterminare tutte le api di un alveare. […] (p. 60)
Da Pensieri del Tè, Adelphi Edizioni, Milano 1987
470. Due volte al giorno, verso le sei del mattino e le cinque della sera, tazza ripetuta di Tè verde della Cina arriva con la sua infallibile virtù unitiva, confirmativa, risuscitativi, a disincagliarmi e a preservarmi da ogni specie d’inerzia, d’inebetimento, di abbattimento.
Messaggi clandestini, che trovano orecchio, avvolti in una carta di riso, della Luce.
Non sono un Orientale. I miei gesti rituali non vengono dai Maestri; somigliano piuttosto ad un’abitudine carceraria, continua negli anni. In piedi, sempre, vicino ad una finestra con la tendina scostata… Ma di Oriente orientante mi resta la fiducia che nell’uscire in giusta misura da se stessi, e abitualmente, non c’è nulla di pericoloso, e che vedere, sentire e incontrare spiriti non è inquietante. […] (p. 9)
471. Il tè, adottato nei primi secoli dell’espansione romana, avrebbe cambiato più della Grecia i costumi di Roma. Meno schiavi torturati, meno Cesari feroci, meno ubriacature di pesanti vini meridionali; il legno al posto della pietra, ponti sottili invece di ponti posti su enormi pilastri, nessuna ambizione di sfidare il Tempo. Ci sarebbe voluta anche qualche fumeria d’oppio nella Subura. Orazio parla ossessivamente di vino, oppressivo mattone, mentre traccia su seta disegni nitidi a china della Vita e della Morte, come non avesse bevuto altro che tè. (pp. 53-54)
472. A Terracina furono le ultime fragole della mia vita, perché erano vere fragole; ce le portava la padrona della casa ogni mattina, in grande quantità. Era il 1976: una crepa nell’anima, una nascita non carnale, una morte, e quelle fragole. Questo è nuovo, di questa fine di secolo, dire le ultime fragole, le ultime vere, le ultime non avvelenate, non radioattive. È nata così una nuova popolazione di ricordi; questo, per me, è legato a Terracina, e senza le fragole il ricordo di Terracina sarebbe molto meno vivo, adesso. A rifletterci, sono ricordi di condannato a vita: fu quella l’ultima volta che… Dopo le fragole, la muraglie, le porte blindate… (p. 77)
473. Nel grande, universale Inquinamento alimentare, mangiare come formiche, vuotarsi come elefanti è la buona regola. La fisiologia rende questo improbabile, ma mentalmente si può fare. (p. 106)
Da La pazienza dell’arrostito, Adelphi, Milano 1990
474. […] [Gemona] Vicolo dello Schioppettino. Al N. 3 del vicolo san Giorgio una cuoca tra i vapori gira affannato mestolo negli alluminii bollenti. Un po’ d’erba pende da un muretto. Tira aria di abbandoni e demolizioni. La trattoria All”allegria propone un riso contenuto, a guardarlo bene è un singhiozzo. […] (p. 23)
475. Per una pasta e fagioli e una miserabile razione di vegetali bolliti, aspettati per circa un’ora tra dementi che fumano, gettano soldi come al gioco, si affumicano di parole trascinandosi sempre più nel nulla – ventimila lire. Settantacinquemila per una cameretta soffocante, con vista su un muro, a Rialto. Dappertutto, a Venezia, la sua anima brutta è scritta come sulla faccia violata di Madame de Marteuil. […] (p. 27)
476. […] [Venezia] Pranzo alla Madonna. (Verdure bollite, zuppa di fagioli, polenta). Compriamo ciliege. […] (p. 29)
477. […] Ceniamo con sola polenta. Ci maltrattano. Sono delinquenti. Spregevole Venezia della sguaiatezza e dei soldi. […] (p. 31)
478. […] [Roma] Mentre diluviava entro a bere un succo di carote un tale si alza, corpulento, con smorfia:
« Che acqua eh?».
«Già».
(Poi a voce bassissima): «Lei è sacerdote?».
«No.»
«Non è sacerdote?».
«No».
«È fratello?».
«No». (pp. 44-45)
479. […] «Tra i sommi piaceri dell’esistenza Natsume Soseki annoverava le evacuazioni mattutine… » (Tanizaki, Elogio dell’Ombra, dove un intero capitolo è dedicato al cesso giapponese tradizionale come luogo ideale – i viaggiatori d’oggi però non ne sanno niente). L’importanza di tale piacere la si misura dall’Infelicità maiuscola e cronica di quelli che ne sono privi (la malavita, gli schiavi dell’orario, la gente del potere, i dementi che saltano da un fuso orario all’altro). […] (p. 63)
480. […] I quartieri dove si dice che c’è più vita di sabato, sono i più imbracati di morte, i più appestati di mala-vita: andrebbero ripuliti con gli idranti. (È sabato sera, e proprio là, in mezzo a quel vivere di morte, a Roma, ho i gomiti tuffati in attesa di una zuppa di lenticchie). Bambini travestiti per rigurgiti di carnevale rendono tutto più brutto, macchie di colore triviale nei buio della stupidità.
Rientro in albergo tra gli schizzi di gas al piombo, abbagliato dai fari. Chi può fermarlo l’abbrutimento umano? […] (p. 70)
481. […] Il «Blé en Herbe» a Aix-en-Provence, nel portone di rue Mignet, vegetariano delizioso. Place des Prêcheurs con mercato agricolo e antiquario; è tardi, sbaraccano… Appena in tempo per comprare miele d’eriche, un po’ d’uva e una barbabietola. Tutto calmo e gentile. Poi, al «Blé en Herbe» mangiato per 57 franchi. […] (p. 75)
482. […] [Aix] A cena i B. mi danno passato di verdure e patate, tutta la notte sarò Palinuro. […] (p. 76)
483. […] Anche Nietzsche si preparava da solo, viaggiando, il tè del mattino (su fornelletto, immagino, a petrolio – pericoloso nelle camere d’albergo). […] (p. 83)
484. […] Ricercare e preferire alimenti che favoriscano la peristalsi e l’evacuazione sembra ragionevolissimo, eppure è un’assurdità che si cerchi di recuperare e procacciare materia soltanto allo scopo di perderne di più il giorno dopo. La fatica umana non è per la gola ma per l’intestino. […] (p. 91)
485. […] [Milano] Pranzo in Via Larga con zuppa d’orzo, polenta, dolce di semolino. […] (p. 92)
486. A Novara tutto è pessimo. In un albergo uno spazio da canarino solitario interamente occupato da un lettone squallido in un ristagnante odore di DDT mi aspettava ma scappo subito (la finestra dava su un muro nero e sporco!) trovando nelle vicinanze locanda con Maritornes. Neanche un decente per cenare… In una pizzeria l’eterno menù italofono: le immonde penne all’arrabbiata.., sogliole fritte… Mi alzo e dico buonasera meglio digiuno. Mi indicano un locale vantandomelo come una gloria, un vero Eden, per raggiungerlo strade dopo strade buie e sporche, ecco arrivo al celebrato locale dove entrato subito m’investe un ingente fragore di risate stanno mangiando in diecimila e fumando fin sotto ai tavolini mentre un’orchestrina ti sbrana con violenti colpi di mandibola di batterie stereofoniche e in vasche verdi nuotano dentici anguille pescispada testuggini aragoste trote e altra ferramenta di fiume e di mare un vero Museo Oceanografico! (Oh bene, nessuno mi trattiene, hanno troppo da fare, la borsa mi pesa, sono digiuno da ieri sera ma non importa pur di fuggire da quelle ganasce sono più fortunato delle loro anguille in camera pur tra molti rumori va meglio mi faccio un decotto di fiori d’arancio con un po’ di crusca e miele e lo stomaco ringrazia per non essersi riempito di materia triste in una città così perversamente tetra. (Le 23,15 dell’8 marzo 1985 a Novara). Gatti infuriati e macchine.., porte sbatacchiate… voci volgari… […]
Compro due pani di segale.
RICONCILIATI CON CRISTO SPEZZIAMO LE CATENE DEL’EMARGINAZIONE. In San Gaudenzio c’è spazio che dà respiro, c’è silenzio, c’è Antonelli. Colore rosato nobile, bell’altare nero. Aroma delizioso di pane dalla mia borsa aperta. […] (pp. 96-97)
487. Don Bosco, suoi miracoli. Uno o due li avrà pur fatti risuscitare: però, crepare, quanti? Un vero despota punteggia di grazie le sue stragi. Utilissimo il dono di poter far morire col pensiero, col semplice desiderio. Se ce l’avessi, ne farei uso anch’io, e molto spesso, farei morire tanta gente, per filantropia. Cavour grande mangiatore; don Bosco grande digiunatore: due interessanti creazioni di periferia nordica del Dio Contrasto. (p. 99)
488. […] [Genova] Ragazza piena di brutti foruncoli mi chiede soldi sotto la Galleria Mazzini, pronta a siringarsi. Do il mio obolo per la diffusione dell’eroina.
Comprato bel tè al loto, scheggine di candido nenufaro nel buio. […] (pp. 100-101)
489. […] [Genova] Da Zeffirino (lusso che dà sul volgare) maccheroni (con un buon pesto) e un poco di verdure bollite: in tutto ventimila. […] (p. 102)
490. […] [Barletta] Mi rassegno a cattiva cena; hanno solo orecchiette e gommosa mozzarella ma sono gentili mi fanno apposta tre mele cotte, il proprietario è simpatico e parla un dialetto interessante e incompensibile con due incantevoli ragazzine dallo sguardo severo e dolcissimo. Per le vie i bambini tutti magnifici, ancora, con facce (stupore) d’infanzia incontaminata. Le donne è un piacere vederle perché incessantemente gettano occhiate, siamo ancora all’amo della Fenisa. Credono di vivere in un mondo dove donna è un mestiere, come le loro nonne, invece non lo è più… Mentre mangio devo patire televisore e altri incoercibili rumori (nessuno umano), fortunatamente vedo ogni tanto balenarmi quei due sorrisi. […] (p. 111)
491. La più piccola delle stazioni ferroviarie approda al ricordo della più famosa delle battaglie: CANNE.
Manca perfino il bigliettaio, ma il treno ricorda che deve fermarsi. Vendono appena fuori fave fresche di maggio. (Buon pitagorico non sono: amo le fave, specialmente come le fanno in Puglia, deliziosa purée). […] (p. 114)
492. […] [Bari] Strada San Giacomo, al N. 6 Istituto di Letteratura Cristiana Antica.
Lezione di catechesi di giovane prete ai bambini nella chiesina di San Giacomo in piazza dell’Odegitria:
«Che cos’è lo Spirito Santo?»
«È l’amore che unisce il Padre al Figlio».
Domanda trappola: «Di che cosa ci dobbiamo nutrire?».
La giusta risposta barese sarebbe: «Di fave e orecchiette», invece due o tre bambine, già brave nell’impostura, rispondono indifferenti: «Della parola di Dio».
Bravamente, il pretino sfiora il tema Inferno. «Che cosa dobbiamo fare per non bruciare?».
Avrei un lungo elenco di unguenti e pomate, qualcuna ce l’ho nella borsa. Ma quei bambini sono troppo avanti nel mentire:
«Ascoltare la parola del Signore».
La parola li nutre bene, i bambini hanno l’aria prospera; ma una bambina si preme la faccia con un fazzoletto, è triste, le duole un dente.
Di donne ce n’è più che di pesci – ma ormai sono come loro: non cantano.
Grido di venditore di ravanelli con basco. […] (p. 126)
493. […] [Bitonto] Cambio strada perché tre o quattro deficienti mi hanno scorto e già cominciano ad avere convulsi di risa.
Mercato tutto di fave.
Corte Arianella. Via Arco di Cristo. Bella loggia con due gerani. Brutto bassotto che fiuta. […] (p. 129)
494. […] [Bitonto] Messa per un Defunto alla Madonna di Loreto. Il prete ha voce soave ma sembra fissarmi intensamente, esco per il disagio. L’Occhio certamente esiste, a Bitonto.
Da un camioncino grandi grida di un venditore di carciofi. […] Da un fornaio compro taralli salati. […] (p. 130)
495. […] San Marino, 8 giugno. Mi saltano i nervi per il digiuno e la fatica come avessi scalato a piedi questa montagna. Fuori dell’albergo schiamazzi di bande alemanne. Il paesaggio è di eccezionale bellezza ma il luogo e stupidamente turistico e ha perso ogni elementare rapporto con la verità. Una Svizzera più tonta, più arida, tutta prosciugata dal denaro. Mangio senza piacere, coi congressisti ayurvedici, di malumore, con poca voglia di rimanere.
In casa mia non ho specchi. Negli alberghi sono costretto a vedere ogni momento (specie nei bagni, dove ne mettono di enormi, e illuminati da tremende lampadine) la mia faccia di fragile coglione scontento, che rabbrividendo sente la malinconia di Giasone di Cleandro. […] (pp. 143-144)
496. La grazia che non mi fu accordata: una strada, un cavallo che cammina e tira un carro, sul carro ci sono io con Antigone, Ismene e Cordelia, ci fermiamo sulle piazze e montiamo una baracca dove muoveremo delle figure, un grammofono canta canzoni che impediscono l’agghiacciarsi del cuore, ci facciamo il tè, mangiamo cipolle senza sale e lenticchie, ci pagano, le tre donne veglieranno la mia agonia…
«Puoi farlo in qualsiasi momento. Trovi tutto. Perfino Antigone».
La strada no! Non ci sono più le strade. E senza le strade non posso muovermi. Trovo tutto ma non la strada. (p. 152)
497. […] Passeggiata notturna per Urbino dopo irritante per la sua costosa nullità cena in una trattoria che pareva decente, ma subito «il suon dell’ora» mi ha portato questa piccola rivelazione, che nelle Ricordanze, l’«io vigilava sospirando il mattin» è ricordanza segreta del De Profundis (Salmi 130, 6) […] (p. 154)
498. […] [Urbino] Mangio su uno scalino un bel cartoccio di ciliege comprate al mercatino degli erbivendoli. (p. 157)
499. […] [Urbino] Per schivare squallori di trattoria con menù turistico ignobile mi compro robiola piemontese da mangiare in camera ma è troppo grassa la getto intera nel cortile sottostante un gatto accorre subito e non ne lascia niente. […] (p. 160)
500. […] [Lugano] Al Parco di Villa Ciani dove scrivo lettere vengono a sedersi qua vicino due energumeni slavi che fanno i lavori pesanti in Svizzera, tirano fuori un pollo, arrostito nel grasso più fetido, e due o tre lattine di aranciata Fanta, e giù a mangiare e a trincare di quella roba, insieme a grosse bocconate di pane sbiancato gonfiatissimo. Nessuna paura di ulcerarsi lo stomaco, trattandolo a quel modo. Gente che mai vedi con un sorriso. (p. 164)
501. […] Vere fragole, dopo quell’anno e quel mese, non ne trovammo più. Ne mangiammo strabocchevolmente, al mattino e alla sera, per non dimenticarcele più. […] (p. 181)
502. […] A Rebibbia mi trovavo, carcere modello di Roma, e mi pareva di essere in una stazione ferroviaria, in un aeroporto, in una Rinascente, in un Centro Commerciale, in un Centro Culturale, in un’Aula Magna, in un attrezzato reparto ematologico-oncologico, in un obitorio, in un allevamento do bovini ben regolato, in un reparto metalmeccanico, in una centrale nucleare: tutti i luoghi si somigliano, in tutti c’è lo psicologo, il direttore, l’assistente sociale, lo psichiatra, il sorvegliante notturno, il portiere con tante chiavi, il quadro di controllo, il visitatore col permesso di visitare che viene portato a vedere. […] (p. 183)
503. […] Anche Kant si alzava alle cinque e detestava la birra come bevanda assassina. (Penso con raccapriccio a quando bevevo birra ai pasti, me la sento ancora come un Niagara dissoivitore sullo stomaco inondato). Sconcia bevanda di lontane e vicine barbarie… Eppure quanta Peroni ho trangugiato! Quando volevo innalzarmi bevevo Tuborg, chiara. L’odore della fabbrica di birra, verso sera, mi arrivava dentro casa, dolciastro, cadaverico… Con la Guinness, nerastra, rigagnolo impuro, ho fornicato per un po’ di tempo: mi dicevano che la Guinness è salutare. Non capivo perché, se la birra fa bene, le mie digestioni fossero così piene di chiasso. Ne tenevo addirittura in casa, la offrivo a gole… «Una birra!» frase che non pronuncio più da ventitré anni. Kant prendeva sempre da solo il tè del mattino (De Quincey, The Last Days of I. K.). Il giorno che Wasianski fece subentrare il nuovo domestico Kaufmann a Lampe, licenziato (sventura di certi grandi vecchi, di avere accanto a sé il domestico che invecchia con loro, invece di donne giovani alla re Davide) fu preparato a Kant il tè per l’ora del risveglio. Wasianski sedeva di fronte a lui. Avrebbe desiderato prenderlo con lui ma Kant non poté accontentarlo: lo cancellò dalla stanza, pregandolo di togliersi dalla sua vista, pur restando, apparentemente presente.
Questo piccolo avvenimento (1° febbraio 1802) non è biograficamente trascurabile. Il tè io lo prendo da una trentina d’anni ormai, due volte al giorno, mai preparato da altre mani, e le poche volte che ho dovuto prenderlo in compagnia di qualcuno (nel periodo di vita coniugale, una quindicina d’anni, avevamo orari diversi) è stato una specie di pena, perfino di smarrimento… Qualcosa che ne strangola il piacere, obbligando a scambi futili di parole, e ne annulla l’effetto magico sui nervi e sul pensiero. Gli altri, in quell’attimo d’amore tra uomo e foglia del tè, diventano degli spiacevoli voyeurs… Così, finché potrò, prenderò il tè in solitudine. In albergo, alle cinque del mattino, la compagna dorme, il tè non cessa di essere solitario.
E l’infinita canaglia che beve caffè al bar o infamissimi tè al bar e intanto parla parla parla parla… (pp. 184-185)
504. […] Nelle cucine le riserve di Ulcera Gastrica stanno fremendo in smisurate padelle: tante rotelle di carne fatte letteralmente carbonizzare, fino ad essiccamento, poi disposte in grandi mucchi a raffreddare prima della distribuzione. Frittura è tenebra: «sono fritto» «siamo fritti» quel mucchio di fettine annerite ne è l’immagine. Ho ritrovato là i terrils, le nere colline dei pozzi di carbone del Nord. […] (p. 186)
505. […] [Regina Coeli] è una buia tortura, per chi non sia insensibile, andare di corpo dove non si può esser soli.
Si può tenere un fornelletto elettrico; almeno è possibile farsi un tè. […] (p. 186)
506. […] Ricordi della Stella.
«Caro Ceronetti, a Milano in via dell’Orso c’era la Trattoria della Stella Vini Astigiani. Ci mangiavo a mezzogiorno nel 1958. Come contorno prendevo quasi sempre zucchini fritti… Quando avevo fortuna ci trovavo uno scarafaggio, fritto pure lui. Mangiavo quasi tutti gli zucchini, poi chiamavo il cameriere e gli dicevo: “Guardi un po’?”, o forse bastava un gesto. Mi procuravo così un secondo piatto di zucchini fritti, gratis.
«… Certi colleghi mangiavano dall’altra parte di Brera, dalle Sorelle Pirovini, dove sparecchiava un nano. Aveva gli occhi all’altezza dei tavoli. Togliendo i piatti, se vedeva che c’era rimasto qualcosa, se lo spazzolava in bocca con la manina». (Lettera di Giampaolo Dossena, da Milano, 28 giugno 1985).
«… nel marzo 1942, affamato e solo.., una grassa battona, in via Barbaroux, mi domanda hai fame? mi prende sottobraccio e alla Stella d’oro ordina per me una rognosa (due uova al burro con pezzi di cacciatorino) …mai nessuna persona-per-bene che mi avesse aiutato allora.., tutta la vita difenderò le puttane! E con il tuo Heidegger Sein und Zeit vai sempre bene? ». (Lettera di Nino Sannazzaro, da Torino).
Una stella che ancora brilla c’è a Meduno di Pordenone; me la segnala Sergio Vallerugo, «albergo situato all’imbocco della valle Tramontina» che «durante l’ultima guerra fu sede del comando tedesco delle SS; comando successivamente passato ai reparti della Decima Mas che occupavano la zona… ricordo le torture che erano inflitte ai partigiani portati in tale albergo… Seriamente danneggiato dal terremoto del 1976 conserva il suo carattere friulano. Specialità: coniglio con funghi, polenta e formaggio friulano…».
L’insegna della Stella e la boxe dei poveri: chi me ne dà notizie mi fa cosa grata. Racconterei tutto, poi, col titolo: Il Pugno e la Stella.
Si manifesta Cecco Ascolano:
Virtù s’acquista per raggio di stella.
Sfuggita quasi alla memoria eppure emozionante la Milano dove spesso andavo tra il 1946 e 1952, tornandoci poi sempre, mai però abitandoci; […]
Il piatto era sempre la milanese con succo di limone e insalata, tra gente che leggeva e commentava le notizie.
Non so perché quel piatto mi piacesse. Forse non mi piaceva ma costava poco; diffidavo del risotto giallo, meno indigesto della milanese ma certo non leggero. […] (p. 200-201)
507. […] [Angelo Tasca] Una volta mi diede del denaro perchè andassi a Reims a vedere la cattedrale.
Ci andai il giorno dopo. Il mio pranzo fu un delizioso dolce con la crema, di là dai vetri era la foresta gotica, di cui non capivo niente. Era forse il novembre del 1953. […] (p. 205)
508. […] [Treviso] Alle otto ristorante già gremito, rincaserò incenato. La camera è buona, mi faccio scaldare un tè bancha, mangio qualche frollino, contento di non essere uno di quegli stomachi che il fuoco dell’indigestione cremerà stanotte.
Il Törless di Musil mi annoia. […] (p. 206)
509. […] [Asolo] Nel Museo, ricordi di Eleonora [Duse]: anche lei, viaggiando, si portava un completo servizio da tè, ma più ingombrante e solenne del mio: in argente pesante, in uno scrignetto… […] (p. 208)
510. Ah figlio d’una cagna, tu viaggi eh? Vedi delle cose, fai degli incontri, scrivi lettere, riempi articoli.., però sempre quella paura di ammalarti, di morire per strada… Io no, e neppure mi ricordo se ho conosciuto il nomadismo moderno, certo non ero infrenesito per i luoghi… L’idea che sopra le ossa possa starci attaccata una pelle, e porosa! mi fa rabbrividire. E un bacino così asciutto che pare un Horeb me l’avrebbe invidiato san Pietro di Alcàntara! Non lavoro no, non faccio proprio niente. Voglie di cambiamento non me ne vengono, sto bene così. Per mangiare, una mosca al giorno mi basta, e potrei anche farne a meno. Non devo allevarla né acchiapparla né aspettarla in bocca per caso: un’amica della Caritas me la lascia ogni giorno alle sette, come le lattaie di una volta, viva, sotto un bicchiere, accanto alla clavicola. Il suo ronzio disperato non mi sveglia, perché non dormo mai, sebbene mi sia facile fingere l’addormentato, senza fare il minimo movimento. Quel ronzio dopo un po’ m’impietosisce, mi ricorda troppo le case, infilo la cartolina sotto il bicchiere e la mosca riconoscente mi entra in bocca subito. A volte la ripiglio, me la metto nell’occhio e sto a guardarla invecchiare. Una mosca, tra le sette e le diciannove, invecchia tanto che la puoi sputare senza rimpiangerla.
Quando non mi stendo, di notte, faccio corse dimagranti intorno a queste due o tre casette, e chi per caso mi vede dalla finestra ridacchia: «Che bisogno ha di perdere chili uno che non ne ha?». Ma io corro e fatico per quelli di loro che pesano ottanta-cento-mille chili, e si muovono come armadi in un trasloco, resi letteralmente pazzi dalla loro obesità incurabile! Lo faccio per filantropia, me ne resta qualche filamento… Ma senza recargli nessun vero sollievo, in verità, neppure se ne accorgono… Allora penso «è inutile», rientro in casa e aspetto la mosca delle sette.
Certo è lunga la notte, non passa mai. Domando l’ora a chi mi passa davanti alla porta: «Ehi, caballero, quanta notte ancora?» e mi guardano quasi sempre come fossi pazzo, perché per loro non è notte affatto, è giorno, giorno senza fine… Mi si vedeva ad un biliardo, giù nel borgo, ogni tanto: ricordo una biglia accarezzata dalla mia stecca che si mise a correre a correre, poi addirittura a volare e finì nella bocca di uno che approfittando della luna riparava tutto solo le condutture. Andai per riprendermela, ma coi gesti mi fece capire che desiderava tenerla in bocca più che poteva, e aveva già altre biglie, sia sopra che sotto, e una sulla testa, che gli cadeva continuamente per terra, non permettendogli di lavorare. Era una teca di biglie, non aveva nient’altro… Smisi di giocare del tutto, non me n’era mai importato niente, di vincere o di perdere. È sempre meglio cessare da una cosa, che incominciarla.
Mamma, sei in casa? Mi friggi la mosca? Sèguito a chiamarla e a parlarle ma lei è andata via da molto tempo, mia madre: era stufa, sugli ottanta e più, di starsene in casa a fare da serva a tutti e un giorno ce lo disse mostrandoci il biglietto del charter. Andava a vedere i Maya! Io la chiamo ancora, per via dell’Edipo, che resta attaccato a certe ossa, coccige, sterno, modificandole anche. Scusatemi: «Mamma, ti senti bene? Ti occorre qualche cosa?». Non risponde, ma se davvero le occorresse qualcosa non saprei come fare, sono privo di tutto, anche di cuore.
Guarda guarda: UN TRENO!! Non ne era mai passato uno, finora, qua, davanti casa Non è una stazione questa! Però, se il treno si fermasse, lo diventerebbe, mi metterei il berretto da capo e agiterei le braccia. Oh non si ferma certo: quello è l’Orient Express, centodieci carrozze, tre ristoranti dove si marigia il caviale del Po, e tra Parigi-Gare de l’Est e Istanbul non si ferma che due o tre volte, per rifornirsi di medicinali, disfarsi delle lenzuola, scaricare i cadaveri. È strano che passi alle tre di notte, mentre l’Orario Pozzo dice alle cinque e ventuno: forse stavolta ha anticipato per non perdere il crollo del ponte! Ci saranno trecento morti, molti lamenti di lamiere, e negli ospedali dei dintorni la notizia sta aspettando che il fatto succecla per gettare l’allarme: c’è là un medico di guardia che si è addormentato su una delle storie di Maigret, un’infermiera che mentre si profuma vede accendersi la lampadina. Ma tra poco avranno finito il turno e toccherà ad altri…
La lascio a te oggi la mosca, mamma? Così te la metti nel vino, golosa! Io resto qua, può darsi che passi un altro treno ancora… quello che va a buttarsi nel mare del Nord… Se si sta attenti c’è sempre una donna in piedi, che risponde al saluto! La mano agitata scioglie il vetro e arriva fino a me, e per un attimo mi ravviva qualche vertebra, non sono gioie da poco in un mondo così avaro… (pp. 214-216)
511. […] In una stazione così [Lyon-Perrache] senti che, veramente, il viaggiare ha perduto ogni senso. Esco dall’Italia (una prigione) per finire in Francia (prigione più perfezionata, meglio funzionante): cambiare prigione non è sentirsi più libero. Arrivo a Digione come un pollo già fritto. Mi ribello però all’assegnazione di una brutta e infausta camera che ha il numero 17.
Meno male, mi hanno messo al 14. In un tristo caffè dove si mangia della pasta imbrattata di rosso «all’italiana» mi sdigiuno amaramente. L’olio è solo di colza. Non ci sono che menù con carne, in questa bestiale Borgogna. […]
512. […] [Digione] Librerie dove si prende il tè, o sale da tè dove si comprano anche libri. L’associazione non è indovinata, ma i luoghi dove le aprono, il modo di arredarle, i giovani che accolgono il cliente, le facce che vedi dai vetri, che trovi, sono un filo di unguento tra il fumo di un perpetuo incendio. […] (p. 228)
513. […] [Roma] Le donne delle pulizie erano delle grandi divoratrici di salumi, allo spaccio dell’interrato le vedevo addentare quelle porcherie e bagnarle poi di caffè, soffrendo per loro. Saranno ormai tutte morte per gastriti degenerate in tumori. Non avevo ancora preso l’abitudine del fornelletto elettrico in viaggio: dovevo buttare giù anch’io le bevendacce che offrono questi lugubri bar. […] (pp. 277-278)
514. […] [Roma] Ore di biblioteca, intense come ore d’amore! […]
Dopo cena, prima di rientrare all’accampamento dei salutisti, interrogavo ansiosamente le carte in casa di Emma K. che una volta furono precisissime: avrei incontrato una donna con grande reciproca folgorazione, in quel periodo molto malata, ma soltanto «fra qualche anno». Il duro intervallo temporale mi guastava la gentilezza del presagio: nell’attesa, però, avrei potuto legere e studiare l’intero Corpus Ippocraticum! Non ero ancora del tutto guarito da un amore senza senso, un vano inseguimento del niente, e volevo essere rassicurato sul futuro:
«Tutto bene. Le carte indicano il letto!».
Mangiavo in una trattoria di via Panisperina, dove avevo anche la legatoria, nella quale maestro e allievi erano di una bontà, di uno scrupolo di mestiere illimitati. Farsi rilegare un libro era come ricevere una carezza materna, in quella bottega, naturalmente sparita. La trattoria c’è tuttora, il proprietario andava dal cliente con questa prospettiva canora: « Oggi la vuole la gallina bella-bella?». Il cameriere, romagnolo, mi scherniva: «Ma cosa Le diamo un formaggino Mio?». Niente mi ripugna più del pollo, in qualunque modo cucinato, eccetto il pesce di cui mi ripugna perfino, in italiano, il suono della parola (specie quando c’è chi pronuncia marcatamente: ppe-sce, subito pare ti arrivino in bocca delle squame viscide che friggono mentre fish, poisson, pescado, ichthys ec. non mi danno allergia acustica, li lascio ai loro committenti, sempre molto apprezzati dai camerieri perché il piatto è caro.
«Non mangi neppure il PESCE?».
«Nooo! Mi fa sch…».
Guardami: che cosa ho di affine con l’elemento acquatico? Pulvis et umbra sum, sono nato e vissuto lontano dal mare, neppure mi affacciavo su fiumi, il mio segno è terra su terra…
«Allora, le patate?».
Le patate sono il pane della disperazione, rendono idioti, faremo ancora guerre per le patate perché faute de pain bondance de couteau (Nostradamus) me ne basta una ogni tanto, cotta al vapore. Oh i popoli che mangiano patate e bevono, sulla patata, la BIRRA! Oh gli sventurati mangiatori di chips! La bocca salata e asciutta, margarina prosciugata, e giù birraaa! Da stomachi in rovina che cosa può venire di buono? Purtroppo, in via Panisperna e altrove, ero solito trangugiare una bottiglietta di birra, e uscito di là, in una pasticceria di via Nazionale, anche un piccolo indigesto dolce al cioccolato, tutto zucchero e strutto.
Tracce d’impurità carnivora mi restavano e ogni tanto, ancora, ordinavo della carne con un po’ di cipolla, cessai del tutto ogni necrofagia soltanto nel Settanta, mi pare, da allora non ho più toccato nutrimento cadaverico, qualunque fosse la tecnica o il rituale di strage. Se si voglia vivere secondo un codice etico decente non dovrà esserci sulla via che percorriamo nessuna ombra di mattatoio. (pp. 279-280)
515. Quirinale, 3 dicembre. […] Il tè passato alla Compagnia dal palazzo cuore dello Stato non irradia gran cuore: tazze di plastica, nero come inchiostro. Almeno, al centro del tavolo dove si truccano, le artiste avranno dei fiori, portati dal vento su dal giardino. Nervosismo, purtroppo, che ristagna, che non si muove… In prova generale davanti a pubblico (gente del palazzo e invitati esterni) si recita passabilmente: l’erezione è ancora a metà – misura di vigilia, legittima. Per semafori, corazzieri. Per il pubblico, toilettes irraggiungibili come il Potere, perdute oltre le sale degli arazzi, da scoraggiare la petizione.
Utile Stanislavskij, La formazione dell’attore, ma il cuore mi dà molestie per l’eccesso di tensione. Compagnia inamabile e alterata. Senza amore si è dei ciechi addestrati a far funzionare un centralino telefonico.
Oggi resipiscenza nel servizio: le tazze sono di porcellana; guadagnando fiducia a poco a poco potremmo arrivare, dopo una settimana, ad avere quelle del re del Marocco. Ma il tè dovrei portarlo io, da fuori, come faccio dappertutto. Mi rattrista, sentendole un po’ carne mia, che queste ragazze si trattino così male a tavola, questo contribuisce ad innervosirle; però con loro non parlo quasi più, rinuncio a dare consigli.
Metterò la cravatta. […] (pp. 307-308)
516. […] Nota, in Hugo, del 30 dicembre 1870: «Ieri, mangiato topo». Che cosa avrò mangiato io, ieri? Veleno per topi, diluito… […] (p. 323)
517. […] Rispondendo ad una piccola inchiesta sul vegetarianismo dicevo che al bisogno-piacere di mangiare carne corrisponde probabilmente scarso pensiero e poco sentimento erotico. È vero senza fagìa di carne non si vive, ma perché dev’essere di animali massacrati e cotta, senza palpito? Conoscendo e vivendo con profondità il bacio ce n’è abbastanza da lasciare in pace pascolare e razzolare qualsiasi bestia, volare gli uccelli, mangiarsi tra loro i pesci. […] (p. 326)
518. […] Orrida intervista radiofonica. Digiuno per punirmi di aver accettato questo invito a volteggiare nel vuoto della cretinità. Di cretino sono sazio come un crocifisso dei suoi chiodi. Compro Ecuba ed Elettra tradotte da Albini. Cadono poche gocce di pioggia e tutti subito a maledirla. […] (p. 327)
519. […] (Di gialli – romanzi – non ne lessi mai uno. Sono scritti in modo ripugnante. Simenon lavora nel giallo, ma è un grande scrittore, sottratto al genere).
Il giallo violento delle catene di ristoranti fast food indica pericolo: «Qui, cibo di morte». […] (p. 345)
520. […] Per celebrare i miei sessanta oggi 24 vado ad Arezzo a comprare del pane e dei rotoli di «Crespata Rosa» igienica, diventati rarità, sebbene raccomandati dalla Commissione Episcopale Italiana. […] Il pane, garantito salutare dalle due fornarette, già lo conosco: non è buono, dà poca gioia era meglio lasciarglielo.
Odore di pane! Qui, en este mundo que se resuelve en hoyos, l’odore che usciva dai pistrini panificando la via è stato ben più del loto e del giglio e della rosa! Ma è sparito anche il pistrinaio, dopo che il mugnaio della fiaba è stato pietrificato dall’incantesimo. Il pane oggi ha l’odore del cotone, della garza… Questo, aretino, non è granché ma ha odore di pane: senza mangiarlo lo lascio dal sacchetto diffondersi in aroma nella stanza. […] (p. 349)
Da La fragilità del pensare, antologia filosofica personale
a cura di Emanuela Muratori, Rizzoli, Milano 2000
521. autopsia
Quanto al pudore delle autopsie, mi metto dalla parte del cadavere, che è un parteggiare dei meno prudenti. Oh morti, io vi conosco! E i vostri Mani, mentre vi frugano, sguazzano nella pena! E di aperture obbligatorie di corpi spenti se ne fanno veramente troppe, e sono tutte violenze, senza consolazione religiosa, consumate su carni indifese. È però un altro utile esercizio, pensare a questa avventura estrema del corpo, e che il suo strazio potrà servire, forse, alla verità e alla giustizia. Ma, veramente, è utile alla Giustizia che l’anatomista, deposti i mirabili strumenti, disinfettate le morbide mani, scriva di me: «Ieri sera, alle 20,45, aveva mangiato due mele cotte»? (p. 39)
522. carne
La prima resistenza alla pressione sociale che bisogna imparare nella giovinezza è la resistenza ai piatti di carne, ripieni, sughi di animali uccisi, arrosti ec. imposti dalla Famiglia e dalle Feste. Ogni volta che si accetta il pezzo di carne della Famiglia gli si consegna un pezzo d’anima da mettere in schiavitù. (p. 62)
523. cena
La cena migliore è una buona evacuazione. (p. 66)
524. dieta
La dieta a base di cavallo non deve escludere la sella. (p. 94)
525. digiuno
La più squisita delle friandises è il digiuno. (p. 94)
526. mangiare
L’italiano ha la presunzione di mangiar bene, ma non è così. È un orfano di salute, mangiante male e in eccesso. I suoi rappresentanti politici, i suoi magistrati ne rispecchiano le abitudini alimentari, esasperandole a volte: il caffè ristretto e schiumoso, il cornetto indigeribile, la tribale pizza, le turpi lasagne, le bevande gassate e fredde, il pane allo strutto, il latte macchiato, le gommose mozzarelle, condimenti insensati e il pomodoro crudo verde. Non diversamente mangia la malavita, gli assassini, i trafficanti d’armi. Governanti, governati e fuorilegge formano in Italia un’unica nazione di malmangianti dal profilo civile smascellato: per tanti sbagli e delitti c’è anche una causa alimentare… (pp. 185)
527. nutrimento
Tutto l’immenso traffico di nutrimento nel mondo non porta nelle nostre bocche che la morte dell’anima. La mano che vi nutre finge di contentarsi di soldi ma distruggervi l’anima è il suo fine. (p. 215)
528. sale
Il gesto di aggiungere sale è macchinale, rabbioso, continuo (l’ho tante volte osservato come un interessante aspetto della depravazione), quasi che il nutrimento fosse morto e il sale destinato a sostituirlo. (p. 271)
529. tè
Nel 1776, la distruzione delle casse di tè nel porto di Boston è il segnale della rivoluzione americana; ma più di quella rivoluzione è da segnalare il tuffo amaro nella violenza, nelle nostre risse permanenti di tasse e costituzioni, di quelle nobili, incruente, spaventate foglie di tè. (p. 302)
Da Piccolo inferno torinese, Einaudi, Torino 2003
530. Le torinesi (1982)
Casanova attribuiva la bellezza delle Torinesi alla purezza dell’aria e alla qualità eccellente degli alimenti, due cose che, ormai ricordi e fantasmi, non possono più produrre quell’angelico effetto. Però la qualità degli alimenti resiste, in Piemonte, meglio che altrove: clima in malora, aria di crosta avvelenata, canali d’irrigazione appestati, contadini marchiati Montedison e Fiat, ed ecco il miracolo: quel che è buono è superiore al meglio di Francia e Italia messe insieme! Ma ad alimentarsi con cose buone ieri erano in poche per povertà, oggi per la fretta; è consigliabile frequentare soltanto donne che non mangiano il panino dopo le riunioni e non afferrano a stento il nutrimento spenzolando dall’uncino di un orario. L’indurimento femminile è una batosta amara e fatale; aria e denaro formano durezze senza scampo: facce da Olanda del Seicento, da fiorino svalutato, dopo quelle da Assommoir, e tanto denaro in eccesso che ha bisogno dei flebotomi del crimine; senza cavate di sangue la città scoppierebbe. Adattarsi è possibile, il prezzo è imbruttirsi. In città più sottili, lo charme sbuca perfino dalle tenebre dei parcheggi, a Torino il non molto che illuminava le strade non ha tenuto. L’ultima bellezza torinese l’ho vista io, nel Ventre della città, era una bella venditrice di patate, gridava belle belle patate alzando belle braccia, una lampada di carne tra le cassette di tuberi spenti, una luce in movimento emersa da grigi terrosi emblemi.
Zucchero! Zucchero! Maledetto zucchero! Quel Gozzano che si diceva innamorato di tutte le signore che mangiano paste nelle confetterie! E voleva baciarle nella bocca piena di crema! Vertigine zuccherosa e mancanza di riguardo per l’attività masticatoria: «Omnia tempus habent», via il bacio di lì, cremoso Tisico. La Confetteria Baratti c’è ancora: le mangiatrici di paste sono diminuite, il costo del diabete va riducendo la golosità. Mania femminile nordica, paste, torte, creme, ersatz dell’Amore che ha la brevità dell’estate, quanto ti detesto! Ammirevole solo l’intrepidità delle Tedesche nell’affrontare, dopo i grassi, il grasso proprio che le sbugnacca! Ma la Torinese è guardinga, ne quid nimis, anche la mangiatrice si pesa regolarmente, screma tutto, Gozzano fuori, a ingozzanarsi di paste da solo, dietro l’angolo! Così, mangiando meno paste, gli resta più tempo per leggere; bocca chiusa, libro aperto; lettrici solitarie, in aumento.
La loro cucina, che Nietzsche delirando amava, è un’oreficeria pesante. Essermene svincolato a tempo, è stato per il mio stomaco un berretto frigio. Non è solo questione di piatti: è la loro cottura alchemica, è il fuoco, un fuoco quasi eterno, a farli anemici e violenti, trasformati in spugne nere untissime. Sulla stufa a carbone, di una cucina che ricordo bene, un sugo di pomodoro restava a cuocere un mattino intero, con aromi, olio e burro, imbevendosi di alluminio; era poi un acuminato coltellino, lo spettro maligno del pomodoro defunto, che spuntava, rosso, dalla pasta stracotta. Forse, piaceva a Nietzsche questa raffinatezza crudele del ratatiner torinese, la metamorfosi di un comune alimento in una scheggia di minerale prezioso. C’è della gloria, ma è una gloria cupa. Per fare un vero zabaione s’impiegano due ore. La Torinese è troppo amica del fuoco: cucina all’infinito, i suoi fornelli non si spengono mai, dall’isola di Lemno vengono le sue ricette.
Le Torinesi invitano a pranzo, ma rifiutano l’ospitalità notturna. L’ospite, di notte, è un ladro di privatezza, un vampiro d’intimità, e un portatore d’indecenza. Purché non voglia trattenersi a dormire, moltiplicano le attenzioni diurne: pranzi congestionanti, centrati sul terribile fritto misto, lo saziano, invogliandolo a camminare l’intera notte. Neanche un amante, dopo la mezzanotte, è gradito: sarà più amato dormendo a casa sua.
Da Oltre Chiasso, Libreria dell’Orso, Pistoia 2004
531. Corsa allo zucchero […] Gli italiani, terrorizzati dalla televisione si sono buttati sullo zucchero bianco, che il vecchio e saggio dottor Carton metteva tra gli «alimenti assassini» insieme alla carne e al pane sbiancato.
Gli italiani fanno parte dell’Europa che mangia – quella che ha tutto da «perdere», senza conservare l’onore, già perduto da un pezzo e non rimpianto. Chi ha da perdere, delira immediatamente al pensiero di poter perdere qualcosa, e nell’economia industriale c’è questa legge, di rigoroso dettato satanico, che è già perdita il non-aumentare. […] (pp. 61-62)
532. Anatomia di uno sciopero Ma oggi si tratta di manifestanti con pancia piena, sia pure di nutrimento industriale devitalizzato e ammorbato di additivi cancerogeni. (Fatto da rilevare: contro i cattivi e spesso pericolosi prodotti del mercato alimentare, mai sindacato ha chiamato a raccolta masse qualitativamente malnutrite). (p. 189)
Da Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto,
La Finestra, Trento 2006
533. Mi stupisco, quando vedo gente giovane mangiare carne. Mi sembra talmente cosa d’altre epoche! La gioventù carnivora non è coi tempi, ha uno stomaco da secolo XIX, che carnivorizzò l’Europa… Cibarsi di pezzi di animali macellati è un’anomalia, fuori della dieta vegetariana non c’è giovinezza vera. La carne è piuttosto un’abitudine senile. Richiedere piatti di carne, parlarne, ricordarli è cosa da vecchi, e da vecchi incapaci di svecchiarsi con una dieta decisamente alternativa. Se dei vecchi mangiano carne non mi stupisce, trovo questo normale. (p. 40)
Da “Giuseppe Gorlani, Uomo e natura, con una testimonianza di Guido Ceronetti, La Finestra editrice, Lavis (TN) 2006”
534. Quarant’anni di vegetarianismo
[La Stampa 8 agosto1997, Ombrone 1999 – per gentile concessione]
Un certo progresso c’è stato. Ha cessato finalmente di essere oggetto di curiosità e di stupore. L’alimentazione vegetariana oggi è compresa da tutti, quantunque adottata da un’infima minoranza. In modo stretto, infatti, da pochissimi. Si sono perse, intorno a me, le domande che per lungo tempo ho patito, persecutorie: «Perché? In che modo sostituisci? Dove prendi le proteine? È per motivi igienici o sentimentali? neppure ogni tanto? Come! neanche il pesce? Non ti viene mai voglia di una bistecca?».
Bistecca è sempre accompagnata dall’aggettivo bella. L’italiano automatico dice «una bella bistecca». Non so a quale grado di bellezza assegnarla, mi pare lontana dalla Beatrice di Guido Reni e dalla cattedrale di Trani una bistecca. Allora, sì, una barba essere costretti a rispondere, dal momento che i rapporti umani sono per più di tre quarti chiacchiera, e la chiacchiera è per più di tre quarti risposta a domande (per lo più idiote). Non dico che non mi facciano più del tutto domande del genere ma «fui giovane e ora sono vecchio» (Salmo 37), quel fiore di zanzara si fa vivo di rado…
Anche nei ristoranti non vegetariani il cliente che dichiara di non volere carni ha cessato di essere visto come uno scarafaggio. È stata una via crucis, ora è resurrezione. C’è stato un cambiamento di quelli che nei discorsi superelevati sono definiti epocali. È già, davvero, New Age! Chi viene a prendere gli ordini non storce più la bocca in un indicibile disgusto per il pidocchioso che non rema in un mare di Belle Bistecche. Ma quante umiliazioni! Quanti imbarazzi! Eri perfino obbligati, a volte, di giustificarti: – Sa, il mio fegato… – Un fegato da fare invidia a un merluzzo, eppure al cameriere, ai maître, bisognava mostrare una lastra di sfacelo. Tutta colpa del fegato… Non eri molto creduto, ma ottenevi un minimo di accettazione.
E con quest’anno, io sono arrivato al mio quarantesimo di regime vegetariano, con soddisfazione – quanto a questo almeno – del corpo e dello spirito.
Il nostro eccellente medico di famiglia scuoteva la testa e mi preannunciava una prossima anemia di esito mortale. Avevo intorno facce preoccupate: – Ma non smetterai mica di colpo! Non ti riprenderesti mai più! – Non ero l’asceta Ramakrishna: smisi gradualmente, senza neppure la certezza che avrei smesso del tutto. La carne, cucinata in certi modi, non mi dispiaceva. Solo per il pesce nutrivo, fin da prima di nascere, un’invincibile avversione. Con i poverissimi «mangiatori di patate» di Van Gogh posso sentire qualche affinità, ma i mangiatori di pesce (metà del mondo e anche più) li vedo, pur non negandogli, se occorre, qualche parola umana, come alieni. Tuttavia mi attirano le friggitorie marinare, per attrazione del gorgo della vita, perché c’è traffico di esistenze, perché vivere è la stessa cosa che essere fritti, e non c’è padella che basti.
C’è stato un altro progresso – voglio lodarne questa stuzzicante seconda metà del secolo: la comparsa dappertutto di ristoranti esclusivamente vegetariani! Le città che ne sono prive sono città morte. La sosta in un ristorante vegetariano, in mezzo alle atrocità urbane, è una carezza rianimatrice. Quanti ne ho visti nascere!
Ahimè, parecchi non hanno resistito e sono stati falciati dalla spietatezza ambientale, dallo scoraggiamento, forse, degli stessi pionieri, dei loro battistrada… Ma ormai la via è aperta e all’incirca piana…
Per lo più si tratta di Club, e dietro ci sono associazioni e anche idee… L’eurovegetarianismo è variatissimo, a seconda dei climi e dei gusti locali. Chi non prova non sa cos’è vera cucina, perché spesso in quei modesti spazi si annidano cuochette da paradiso deliciano! Piatti griffati! Dolci da nostalgie, senza l’infame strutto, senza fiumi di glucosio, senza colesterolo in agguato… Con prezzi a misura studentesca, quasi sempre, e un servizio che non fa disperare per la lentezza, oppure il passa-col-piatto-e-prendi, che è un modo ideale. Ingredienti biologici, ma solo in qualche caso. La maledizione dei trattamenti chimici non è esorcizzabile facilmente.
L’apice del meglio si ha quando, nel locale vegetarista, c’è la regola aurea del Non Fumare. Mangiare vegetariano tra nuvole di fumo è come mangiare una fettina annerita. Che si accendano sigarette a tavola mi sembra inconcepibile, salvo che nelle cene aziendali e politiche, in cui tutto è nuvola di fumo.
Al vegetarianismo inclinano molti, tra i giovani, e sempre più numerosi sono quelli che lo accolgono definitivamente. Se dovessi assumere per lavoro, darei la preferenza a giovani di stretta osservanza vegetariana. Non per accecamento ideologico o intolleranza del conformismo onnivorista (bisogna pur conviverci, sia pure con diffidenza, con gli onnivori) ma perché mi danno qualche garanzia di nonviolenza e di rigore morale. Sono meno intossicati, forse hanno perfino un cuore… Meno impurità metabolica, minore durezza di cuore. Il rispetto per la vita dell’animale è un discrimine forte. Da meditare, attuali sempre, i Four Stages of Cruelty di William Hogarth: il torturatore di animali finisce assassino di donne, impiccato, e poi sul tavolo anatomico, tra lo spasso dei medici che lo frugano. Ma anche l’indifferenza per le stragi bovine eccetera, il non pensarci, la rimozione del macello, è un sintomo grave di occlusione mentale. Le aziende spiano, s’informano: io suggerirei, di nascosto dal Sindacato, di vedere prima di tutto come mangiano i giovani da assumere.
Il piatto è rivelatore. Lo psicologo, se non interroga il piatto, vaga nelle balle. Lo stesso il medico: a che tormentare tanto Sangue e Urina, se non fai l’Anarnnesi del Piatto? Io ebbi la rara fortuna di irnbattermi in medici intelligenti: tutti contenti di sapermi strettamente vegetariano, nessuno contrario, almeno da un quarto di secolo in qua. Significativo dell’avvenuto progresso cui accennavo. Se non sbaglio a raccomandare il regime vegetariano c’è anche Umberto Veronesi; credo, anche Georges Mathé, e Cesare Maltoni. L’Oncologo deve possedere l’Occhio dell’Elefante: se ha questa vista, vede i pericoli dell’onnivorismo e lancia barriti di avvertimento.
Credere che vegetariani si diventi è uno dei tanti inganni del Logos, come linguaggio e come logica. Apparentemente è così: in realtà, si nasce… Non importa il quando questa vocazione congenita, questa caratteristica anteriore si manifesti, la nascita non cessa mai di manifestarsi nell’esistenza che muore. Ci sono dei segni. Poiché il mondo com’è, l’organizzazione sociale, tarpano a tutti con un’illimitata perentorietà sterminatrice le ali (al confronto di questo delitto, la castrazione freudiana è uno scherzo), gran parte di queste illuminazioni nascoste non arrivano a rischiarare il buio della vita. Perciò gli ostacoli invisibili sulla via del vegetarianismo sono più forti dei visibili.
Indiscutibilmente, rispetto alle tre grandi religioni monoteistiche, il cui dominio sulle anime è tuttora fortissimo, specie nei riflessi comportamentali, in tutto l’Occidente e buona parte dell’Oriente e dell’Africa, il vegetarianismo è un colpo di lancia eretica. La storia dell’astensione dalle carni è una storia, anche, di sangue umano sparso a causa della disobbedienza. Nelle famiglie autenticamente, in quanto all’obbedienza, cristiane, il figlio vegetariano fu sempre mal tollerato: prima o poi infatti si sarebbe staccati dal Corpus Christi, perché la tavola unisce e la tavola separa. Come il letto e più del letto. Grande e terribile cosa.
L’onnivorismo cristiano è figlio della romanizzazione (della Roma imperiale) della Chiesa. Come eresia del giudaismo (Paolo) il cristianesimo adottò la via onnivora per segnare l’abbandono e il superamento radicale della Legge mosaica, carnivorista purtroppo ma con una quantità di interdetti. (Oggi da noi si alleva perfino lo struzzo, per macellarlo: lo struzzo è proibito dalla Torah). L’onnivorismo cristiano ebbe anche un significato guerriero e antipagano, nelle terre che conquistava: l’ecatombe cristiana depopulante della vita animale obbligava a ritirarsi il superstite sacrificio sporadico umano. Dopo l’arrivo di Guglielmo il Conquistatore, la New Forest, foltissima di animali selvatici, dove avvenivano ogni tanto immolazioni umane, divenne riserva di caccia e nessun animale fu escluso dai banchetti reali.
Le eresie hanno lottato e perso. Ma non si sono mai perse del tutto, perché c’è in loro il seme del Giusto, un lievito ignoto. Nelle visioni che s’imposero, invece, tutte totalizzanti, la perdita di tutto è segnata… Le eresie hanno tentato l’impossibile: una risacralizzazione del mondo, desacralizzato dalle religioni abramiche, a partire dal loro interno refrattario. (Desacralizzatore è anche il buddismo rigoroso, per la sua eccessiva astrattezza). Il cristianesimo eretico manicheo, un’onda pervasiva che dai Pirenei occidentali arrivava fino al mare della Cina, fu portatore di un messaggio angelico: sciagura averlo respinto, punito coi roghi e le stragi di popoli…
Il vegetarianesimo fu uno dei cardini della Chiesa eretica; è a tutt’oggi sospetto perché il ricordo del grande attacco perdura. Ripeto: la tavola separa, porta nelle famiglie e nei conventi una spada. Sembrano cose remote, eppure basta niente, eccole schiume del presente, Pòlemos inestinguibile… Quando si parla degli agnelli che insanguinano stupidamente i pranzi consumistici della Pasqua cristiana i vescovi insorgono: è ancora il perduto serpente dell’eresia dualista a morderli. Perché l’eresia catarina è l’ombra di Banquo della Chiesa d’Occidente: sempre ritorna…
Mettere troppo ordine nelle idee, non averle flessibili, è rinunciare a pensare, ma in qualche punto, in specie quando si tratta di questioni dell’agire e non agire, è necessario averle nette e non annacquate. Così io pongo, nei confronti di tutte le Chiese, le rivelazioni, le confessioni, le dottrine, le sette, questa fondamentale pietra d’inciampo: accettate o rifiutate il macello? Considerate leciti, divinamente legittimati, l’allevamento intensivo di bestiame, la fabbricazione di animali da esperimento, le tecniche di ingrasso, la sperimentazione medica su animali vivi, la macellazione rituale, l’economia centrata e prosperante sulla sofferenza e distruzione di animali? Ritenete accettabile la convivenza, la contemporaneità della vostra preghiera e del pubblico mattatoio?
Se la vostra risposta è sì, la mia strada e la vostra non s’incontreranno. «Sei stato giudicato e trovato mancante». Dolcemente, ma fermamente: non insieme, non sulla stessa via… I vostri Misteri mi attirano, ma c’è quella macchia, quella bruttura non eliminata, e voi non siete delle guide per uscir fuori dalle tenebre del mondo o per riscattarle.
535. [Maggio 2006] Il caro e dotto amico Giuseppe Gorlani ha voluto gentilmente associare al suo saggio vegetarianista questo mio ormai lontano scritto sui miei quarant’anni di dieta vegetariana stretta, pubblicato su La Stampa nel 1997 e poi raccolto da Paolo Tesi nella sua rivista pistoiese Ombrone in uno speciale fascicolo sull’argomento. Ne apparve anche una traduzione in una pagina illustrata della Zeit di Amburgo. Ma un breve aggiornamento s’impone, oggi che i miei anni di vegetarismo toccano ormai il mezzo secolo. Con tanti anni addosso, ineluttabile è il declino delle forze e della salute fisica: indubbiamente, però, anche i miei medici concordano (non sono tutti orbi!), un persistente regime carneo avrebbe notevolmente peggiorato la mia pagella di Utente – in esilio da qualche oscuro Altrove – della Vita.
Cinquant’anni sono da vvero lunghi, e per me vedere qualcuno che mangia carne o pesce è motivo di stupore. Dicevo allora che i vegetariani stavano crescendo di numero e che c’era più tolleranza. Oh, per quanto riguarda i preti e i cattolici osservanti, nessuna; e mai un mussulmano – in così gran numero oggi tra noi – metterà piede in un ristorante vegetariano. Sgozzerà l’agnello nel giorno del Grande Sacrificio abramico e la devota sposa contribuirà a far prosperare le tetre macellerie halal, disseminate a centinaia nelle città italiane. Ero, quanto ai giovani (termine sempre così generico che occorre usarlo pochissimo) un po’ troppo ottimista. Tra le persone che conosco o frequento al di sotto dei trentacinque (fino a quando si è giovani?) i vegetariani veri sono eccezioni. Molti ristoranti vegetariani dieci anni fa aperti, anche in città medie o piccole, hanno chiuso, prigionieri di troppe difficoltà a sopravvivere. Avevi degli indinzzi e dei telefoni: da cancellare. Alcuni aprono per un anno, e spariscono. A Torino i posti vegetariani erano arrivati a sei o sette, allora: tutti spariti! Nella Svizzera italiana i tentativi di aprire al Vegetarismo sono falliti tutti: galleggia un mediocre Govinda a Locarno, con orari limitati. Ginevra, nella romanda, era il polo europeo del vegetarismo, per il suo tradizionale cosmopolitismo e il forte vaevieni induista: se non sbaglio, oggi la presenza vegetarista è minima. Invece la capitale europea del vegetarismo si è vittoriosamente imposta Parigi, mentre in Italia è da collocare in testa – c’è più cultura! – Milano. A Roma il calo è stato drastico: c’è la Politica, ultracarnivorista, c’è il Papa… A Firenze lo sdoganamento da Mucca Pazza della Fiorentina bene inzuppata di sofferenze e sangue è stato salutato con le fiaccole. Nel Sud mangiare vegetariano credo costituisca ancora offesa all’ospitalità e alla famosa Carta. L’ideale resta vivo, si capisce. Der Geist lebt, ci si può affisare e rispecchiare… (Neppure nei ricoveri per vecchi, si fa a meno delle carni a pranzo o a cena, e se si proponesse un regime vegetariano nelle carceri, dove avrebbe come importantissimo effetto la diminuzione della violenza e delle voglie di vendetta, si scatenerebbero rivolte).
La situazione dunque non sembra delle più promettenti. Il mercato e la pubblicità spingono inferociti al consumo carneo. L’educazione dei bambini, con la frusta pediatrica nella schiena dei genitori che titubassero, è fondata sul regime carneo e sul piscivorismo anche il più sfarzosamente mercuriale: l’adulto faticherà duramente a staccarsene.
Una scelta vegetarista generalizzata farebbe certamente progredire eticamente e religiosamente l’umanità. Però, dai segni, l’umanità ha molta più voglia di regredire, di sotterrarsi viva nella sua penuria etico-religiosa e soprattutto ideale, ha il cupio dissolvi dentro, ha i suoi mostri sotto la pelle lavatissima, e il carnivorismo, dal più grossolano al più costoso e sofisticato (in testa l’aragosta, e lo spaventoso foie gras d’Alsazia) ne asseconda la vocazione a perdersi.
He regresado al tigre:
Aparta o te destrozo.
(Miguel Hernandez)
Non può essere di tutti. Vegetarianismo è illuminazione.
Da Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano 2009
536. Mi stupisco, quando vedo gente giovane mangiare carne. Mi sembra talmente cosa d’altre epoche! La gioventù carnivora non è coi tempi, ha uno stomaco da secolo XIX, che carnivorizzò l’Europa… Cibarsi di pezzi di animali macellati è un’anomalia, fuori della dieta vegetariana non c’è giovinezza vera. La carne è per lo più un’angosciata abitudine dei vecchi. Richiedere piatti di carne, parlarne, ricordarli è cosa da vecchi, e da vecchi incapaci di svecchiarsi con una dieta decisamente alternativa. Vedere vecchi mangiare carne non mi stupisce: li peggiora, ma è diritto d’incurabili.
537. […] Non posso comprendere l’intera umanità carnivora, salvo nella civiltà della renna. Per le feste in cui si mangiano tacchini e agnelli arrivo a un rifiuto di ribrezzo…[…] (p. 145)