sonetti animali

di Pasquale Cacchio

A ogni curva del camion il pennuto

A ogni curva del camion il pennuto
si addossa l’uno all’altro e alla parete
delle gabbie e da qui sfuggono inquiete
le piume sventagliate al buio muto.

Il chiacchiericcio, l’ultimo, più acuto
di quello del motore sentirete
se con l’auto in corteo lo seguirete
con sguardo di Protoavis detenuto.

Non lo sorpasso il camion, dieci piani,
lo seguo verso mattatoi lontani,
ondeggia ad ogni curva il grattacielo.

No, non mi fermerò a guardar ripiani
di polli denudati esposti in gelo,
raccoglierò una piuma come stelo.

Che vi disegno, farfalle, sulle ali?

«Che vi disegno, farfalle, sulle ali?»,
così Dio, del Cretaceo insoddisfatto,
«A te gli occhi di un gufo, a te di un gatto,
musi di serpi e maschere spettrali».

Ma quelle non vedevano i rivali.
Creò allora gufi e gatti con l’olfatto,
dalle ali delle sfingi copiò il ratto,
la volpe il viso in ere diluviali.

Quelle alle piante vollero copiare
i verdi, i gialli e i toni dell’autunno
e i grigi di città copiano adesso,

ché Dio nel Quaternario lascia fare.
Ma chi tra un Giotto e una farfalla è alunno
nell’arte del puntino del riflesso?

Per conoscere il nome che gli uccelli

Per conoscere il nome che gli uccelli
danno alle stelle attraversando il mare
con ali di Icaro vorrei volare
pregandoli di farmi da fratelli.

Imparerò le strida e come belli
gli occhi la testa guida ad indicare
la stella che la rotta fa cambiare
e i versi che a quel punto fanno quelli.

Imparerò costellazioni antiche,
quando Sirio non ombre sulla terra
disegnava, né Dubhe e Mizar l’Orsa,

né Aldebaran e Betelgeuse, amiche,
disegnavano Orione e il Toro in guerra,
ma archeopterix pesanti nella corsa.

Non erano mai morti a zampe all’aria

Non erano mai morti a zampe all’aria
o infilzati da scientifiche spine,
per essi non ci sono medicine,
a parte l’arte antiparassitaria.

Li ha risparmiati l’arte culinaria?
Non il progresso o qualche scienza
incline alla pietà per le carneficine
in nome di un’altra arte, quella agraria.

Sicuro, è esterrefatto il loro dio,
che fin dal devoniano era felice
di offrire ai primi fiori quel ronzio

zittito adesso dalla trebbiatrice,
essendo morto il mondo a ogni brusio
da quando Dio mercati benedice.

Tardi ho imparato ad amare i cerambi

Tardi ho imparato ad amare i cerambi
con le antenne pendenti come giunchi.
Ho tentato di sapere dai lunghi
trattati di entomologia che campi

frequentano, che boschi e quali scambi
fanno con alberi, altri insetti e funghi,
e a che servono i loro artigli adunchi.
E i movimenti delle antenne strambi?

Non ho imparato nulla. Che m’importa
di misure, sezioni e dissezioni
(gli tagliano le antenne!) o di misture?

Ad uno di essi ho aperto la mia porta
in cerca di chissà che direzioni.
Poi l’ho posato tra le mie colture.

Che mangiano quei ragni a casa mia

Che mangiano quei ragni a casa mia
che tessono nascosti i loro teli
pendenti dalla volta come veli
e soffrono alla luce di fobia?

Moscerini. E in inverno? E in carestia?
E Fabre? Non c’è studio che lo sveli
essendo, se alla vera scienza aneli,
inutile all’attuale economia.

Quando mia madre strappa con lo straccio
quei veli dalla volta, sbigottiti
corrono verso il buio, chissà, a casaccio,

per istinto o per chimici appetiti
e qualcuno io ne salvo e poveraccio
cerca abbagliato al sole antichi siti.

Pure un albero vuol vivere eterno

Pure un albero vuol vivere eterno
e a lungo offrire vani, incavi e vuoti
a gufi, assiuoli e a uccelli al sole ignoti
e ai ragni che intelaiano ogni interno;

vorrebbe superare un altro inverno
a rinverdire i rami al vento immoti
(tu poche foglie e pochi fiori noti
anch’essi timorosi dell’Averno);

non nega al vischio, zingaro, una casa
a ricordare gli anni giovanili;
gli dona linfa, nulla in cambio. E, rasa

la salma al suolo, sogna che in monili
riviva legno o, dai detriti invasa,
da fossile in eterni domicili.

Come il gatto la mantide è un insetto

Come il gatto la mantide è un insetto
che si gira di quarto e arruffa il pelo,
s’inarca e soffia se con uno stelo
mi fermo a stuzzicarla per dispetto.

È inerme pur nel minaccioso aspetto,
posso schiacciarla senza che su in cielo
mi si condanni come per un melo
fu condannato Adamo e maledetto.

Lo stelo butto via e con il mento
mi accosto ad osservarla come ondeggia
al ritmo delle foglie con il vento:

con le zampe una maschera tratteggia
che pare un mostro antico e mi sgomento,
sapremo mai noi cosa simboleggia?

Disteso emergi dalla crosta inquieta

Disteso emergi dalla crosta inquieta,
Monte Felice: come un elefante
ti han scolpito e dipinto con le piante
l’acqua e il vento dall’era della creta.

Non è passata solo una cometa
da quando un orso, un tasso o un lupo errante
han trovato una tana in te sognante
e il nibbio il nido e il ragno la sua seta.

Nel sonno forse non ti sei accorto
di quando apparve il primo agricoltore
che al tuo profilo allineò il suo orto.

Ora sogna nell’era del trasporto
di ferirti con strade il costruttore
e tu non più dormiente appari morto.

Quanto è magnifico guardare un cane

Quanto è magnifico guardare un cane,
vedrai in ragione e istinto un solo centro,
làsciati raccontare cose strane
e ama e pensa con me a guardare addentro.

Guardalo come Dio quando rimane
seduto a contemplarlo: «Gli concentro
la mente e il corpo; sa scavare tane?
Vediamo che combina e poi subentro».

Gli fa cenni di assenso appena vede
le sue trovate e vede cose buone,
non si potrebbe farne uno migliore.

A guardarlo negli occhi, pare, chiede
non tanto un po’ di pane o compassione
quanto chinarli prima, con pudore.

2 Replies to “sonetti animali”

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