sonetti

Pasquale Cacchio 1997-2013

I

Sapete che da giovane ero attore?
No, non sipari, palchi, fari e impianti,
no, solo nudi corpi deliranti
le voci e gli occhi degli dei e il sudore.

Il pubblico guardava con timore
i voli e le cadute risonanti
il ventre della terra e le inquietanti
movenze di animali e di chi muore.

Si usciva senza applausi da quel luogo
sorpresi che finisse in un minuto
quell’ora incatenati a un finto giogo.

No, al critico appostato alcun aiuto
davamo a interpretare il nostro logo
lasciandogli quel giorno il foglio muto.

D’ you know I was an actor in my youth?
No, not curtains, stages and equipments, lights…
No: delirious and bare bodies only,
the voices and the eyes of gods, the sweat.

Around, the audience watched the scene with fear:
the flights and the resounding falls, the stomach
of the earth and the disquieting scary moves
of animals and of the dying ones.

We got out of that place with no applause,
surprised how could an hour be so short
although you’ve been chained to an untrue yoke.

We gave no help to the lurked critic, no,
that he could grasp our logos well that day,
and so we left him with his paper dumb.

traduzione in inglese di Marco Maurizi

II

Ti ha affidato, Frank Zappa, la sua musa
un dio ritardatario nel fuggire
dalla terra che in croce, come dire,
per l’uomo si sacrifica delusa.

Alle parole tue chiediamo scusa,
le imbrattiamo di idee a involgarire
il tuo canto di Omero e il tuo ruggire
il modo misolidio e la tua accusa

Tu le vesti di suoni le parole,
ridoni ad esse l’urlo, il gioco e il canto
in simpatia dell’uomo con le stelle.

Quando ti ascolta a notte, come suole
rinfrancarsi, la mente per te un vanto
vorrebbe musicare a crepapelle.

III

Il tuo pensare audace, padre Nietzsche,
non sfida la filosofia ufficiale,
la ignora, e a noi ricordi che rivale
è il corpo a menti e a società posticce.

Cos’hanno da obiettarti le idee spicce
di chi non vive ciò che pensa e, uguale
a chi non pensa ciò che vive, il male
non scorge delle scienze imparaticce?

A piedi affronteremo quanto a piedi
scrivevi, camminava il tuo pensiero!
No, no, danzava! Importa quanto credi?

Neppure a te importava e ne eri fiero,
sognavi un oltre l’uomo senza fedi
che disarmato fosse il più guerriero.

IV

A me fa ridere quella poesia,
(Rimbaud scusami), parla la mia lingua,
ma la rende al mio senno tanto ambigua
da non capirne la simbologia.

Già la rima ha difficile la via.
La musa odierna ha la parola obliqua,
dolce nel suono ma nel senso iniqua
a chi non ama la filologia.

Perfino Rilke, in prosa tanto chiaro,
in versi ti fa correre alle note
come leggendo Dante da scolaro.

Non si ascolta, si legge, e spesso ignote
le parole non sai e da somaro
chiudi il libro lisciandoti le gote.

V

Dormono, Alcmane, le cime dei monti?
Dormivano anche i nostri, provenzali,
fin quando cementificati pali
piantarono a insultare gli orizzonti.

I loro sogni al suono delle fonti
non eran popolati di legali
motivi per costruire quei triviali
aggeggi per privati tornaconti.

Chiamerò tra i miei amici un Sancho Panza
(ne ho pure somiglianti a Don Quichotte)
e con il vento avanzeremo in danza;

pure se invano, con le spade a botte
prenderemo le pale mentre a oltranza
continuano a girare giorno e notte.

Les pics des montagnes dorment-ils, Alcmane?
Les notres aussi, provençaux, étaient dormants,
avant que des poteaux de ciment
ne soient plantés pour insulter les horizons.

Au son des sources, ils rêvaient,
ils n’étaient pas peuplés de légales
raisons pour construire ces triviales
choses pour des profits privés.

J’invoquerai de mes amis un Sancho Panza
(et il y en a qui ressemblent à Don Quichotte);
dansants, nous avancerons dans le vent,

et, bien qu’en vain, nous rouerons de coups
les pales, pendant qu’elles pivotent
sans cesse toutes les nuits et tous les jours.

traduzione di Agnese Pignataro

VI

Di ritorno, cometa, dagli Egizi,
in falsi cieli di città riappari
fra cittadini indaffarati e ignari
dei cicli delle stelle e dei solstizi.

Ridevi degli antichi pregiudizi
sui tuoi fausti ed infausti itinerari?
Deridi adesso il senso degli affari
che ti adocchia tra gli astri redditizi?

Lontano dalle luci cittadine
disegni la tua coda sui miei monti
dei quali guardi triste le rovine

e mentre fuggi via coi mastodonti
e quanto sulla terra ha avuto fine
io resto a immaginare i miei tramonti.

VII

Le pietre della strada di campagna
ingenuo interrogavo da bambino:
«Perché tacete? Parla il biancospino,
il sole parla e quanto l’accompagna».

Salendo e rigirando la montagna
rami e foglie trovai nel travertino,
nei calcari l’ambiente corallino
e in un clasto perfino una castagna.

Ogni pietra che incontro mi racconta
dove nacque, di cosa fu composta
e di qual orma porta qualche impronta

e quale ofiura mai vi ha fatto sosta
e dove ancora l’onda si orizzonta
quand’era ancora sabbia sulla costa.

VIII

Vedo Monte Sidone tutto a un tratto
tagliato da una strada che a un profano
come un’isoipsa appare da lontano
tanto il tracciato è programmato esatto.

La ruspa dalle sue viscere ha estratto
la roccia che dal mare aquitaniano
è giunta fin quassù in luogo montano
ed ogni strato appare esterrefatto.

Ne ha erosi di più l’uomo in qualche mese
che l’acqua, il vento e il gelo nei millenni
e nudi ne ha cacciati di macigni,

che l’uomo antico un poco più cortese
usava altari i giorni più solenni
o megaliti per gli dei più arcigni.

IX

Affido a te, sonetto, la risposta
alla missiva di un pastore sacro
sull’agonia di idiomi e sul massacro
cui gioca la parola sulla crosta:

a schierare ragioni ben disposta,
non ad aprire porte, è un simulacro
di ponti con le cose e va al lavacro
purché ci vada pure quella opposta.

Udendo forse Adamo il vento e il mare
ad ogni cosa dava il nome e in germe
il verbo che poi Dio fece incarnare

e che ora l’Anticristo come un verme
divora fino a nulla denotare,
e il vento è inascoltato e il mare inerme.

a mons.Raffaele Castielli

X

Per conoscere il nome che gli uccelli
danno alle stelle attraversando il mare
con ali di Icaro vorrei volare
pregandoli di farmi da fratelli.

Imparerò le strida e come belli
gli occhi la testa guida ad indicare
la stella che la rotta fa cambiare
e i versi che a quel punto fanno quelli.

Imparerò costellazioni antiche,
quando Sirio non ombre sulla terra
disegnava, né Dubhe e Mizar l’Orsa,

né Aldebaran e Betelgeuse, amiche,
disegnavano Orione e il Toro in guerra,
ma archeopterix pesanti nella corsa.

XI

Dove fuggire? È proprietà privata
l’ultimo atollo e l’ultimo dirupo
è un museo; se una vita come un lupo
voglio (che ve ne importa?) riservata

verrà anche al chiuso da qualcuno spiata,
anche dall’alto, se e come la sciupo.
Voglio (che ve ne importa?) all’evo cupo
tornare, in una landa immacolata.

Felici veramente gli eremiti
e quanti nel deserto in fresche grotte
trovavano riparo dai pruriti

di cittadini di città corrotte,
tanto lontane dai nostri appetiti
da non avere le stelle la notte.

XII

Non erano mai morti a zampe all’aria
o infilzati da scientifiche spine,
per essi non ci sono medicine,
a parte l’arte antiparassitaria.

Li ha risparmiati l’arte culinaria,
non il progresso o qualche scienza incline
alla pietà per le carneficine
in nome di un’altra arte, quella agraria.

Sicuro, è esterrefatto il loro dio,
che fin dal devoniano era felice
di offrire ai primi fiori quel ronzio

zittito adesso dalla trebbiatrice,
essendo morto il mondo a ogni brusio
da quando Dio mercati benedice.

XIII

Tardi ho imparato ad amare i cerambi
con le antenne pendenti come giunchi.
Ho tentato di sapere dai lunghi
trattati di entomologia che campi

frequentano, che boschi e quali scambi
fanno con alberi, altri insetti e funghi,
e a che servono i loro artigli adunchi.
E i movimenti delle antenne strambi?

Non ho imparato nulla. Che m’importa
di misure, sezioni e dissezioni
(gli tagliano le antenne!) o di misture?

Ad uno di essi ho aperto la mia porta
in cerca di chissà che direzioni.
Poi l’ho posato tra le mie colture.

XIV

Che mangiano quei ragni a casa mia
che tessono nascosti i loro teli
pendenti dalla volta come veli
e soffrono alla luce di fobia?

Moscerini. E in inverno? E in carestia?
E Fabre? Non c’è studio che lo sveli
essendo, se alla vera scienza aneli,
inutile all’attuale economia.

Quando mia madre strappa con lo straccio
quei veli dalla volta, sbigottiti
corrono verso il buio, chissà, a casaccio,

per istinto o per chimici appetiti
e qualcuno io ne salvo e poveraccio
cerca abbagliato al sole antichi siti.

XV

Pure un albero vuol vivere eterno
e a lungo offrire vani, incavi e vuoti
a gufi, assiuoli e a uccelli al sole ignoti
e ai ragni che intelaiano ogni interno;

vorrebbe superare un altro inverno
a rinverdire i rami al vento immoti
(tu poche foglie e pochi fiori noti
anch’essi timorosi dell’Averno);

non nega al vischio, zingaro, una casa
a ricordare gli anni giovanili;
gli dona linfa, nulla in cambio. E, rasa

la salma al suolo, sogna che in monili
riviva legno o, dai detriti invasa,
da fossile in eterni domicili.

XVI

In polvere torniamo ed altre stelle,
o padre, nasceranno. Vita e morte
a pietre, a piante e ad animali in sorte
sono date come uniche sorelle.

Che abbiamo in più di tigri e di gazzelle?
La scienza sembra aprire nuove porte
all’uomo che nel mondo non ha scorte
le cose a lui comuni e alle albanelle.

Frammento della storia della terra,
parole e voci amavi, non concetti
a interpretare l’universo invano,

e solo un dio del conversare afferra
quant’io mi ostino a prender per difetti.
Non resta che aggrapparci a qualche mano.

XVII

Derubate dei loro nomi australi,
parlano lì costellazioni idiomi
di mercanti, accademici e nostromi
sprezzanti delle lingue dei locali.

Che nomi avevano le luci astrali?
Pianeti e stelle dai notturni aromi
per sogni, feste, lutti, dei, encomi
e galassie per antichi animali.

Neanche un bel nome, alfe e bete assegniamo.
La Nube è offesa, i vecchi nomi chiede
tasmaniani, boscimani e un richiamo

per notti senza luna, così crede,
per far vedere in cielo il suo ricamo.
Del resto, tra i lampioni, chi la vede?

XVIII

Come il gatto la mantide è un insetto
che si gira di quarto e arruffa il pelo,
s’inarca e soffia se con uno stelo
mi fermo a stuzzicarla per dispetto.

È inerme pur nel minaccioso aspetto,
posso schiacciarla senza che su in cielo
mi si condanni come per un melo
fu condannato Adamo e maledetto.

Lo stelo butto via e con il mento
mi accosto ad osservarla come ondeggia
al ritmo delle foglie con il vento:

con le zampe una maschera tratteggia
che pare un mostro antico e mi sgomento,
sapremo mai noi cosa simboleggia?

XIX

Vedrete, quello lo faranno santo,
sposa la scienza, appare sugli schermi,
fonda istituti per moderni infermi,
le briciole dei ricchi investe in vanto

del loro sentimento per il pianto
dei popoli di stati ancora fermi
a malarie, a bacilli e a vecchi germi,
e, infine, la sua vita è ai pii un incanto.

Però con don Tonino e don Milani
non spartirà la gloria e Zanotelli
se ne starà lontano in altri vani;

un altro paradiso c’è per quelli
che sembrano dannati per gli umani
solo perché ai borghesi son ribelli.

a padre Zanotelli

XX

Tra i vermi che divorano il formaggio
c’è libertà, uguaglianza e fratellanza
più o meno in parti uguali e in abbondanza.
Dell’arte è il gusto l’unico linguaggio.

Si strusciano l’un l’altro col miraggio
di migliorare il mondo a maggioranza
e di arginare un poco la mattanza
di chi sta fuori e senza alcun foraggio.

Ma mai li ho visti quando paffutelli
finisce il cacio. Se li mangia il gatto?
Si divorano come tra fratelli?

Si sparpagliano in cerca di altro piatto?
Fatti insetti, li beccano gli uccelli
o finiscono in luogo putrefatto?

XXI

Tra i cruciverba attende la battaglia,
è prestante, ma a stento un dito moscio
gli basta sui pulsanti per lo scroscio
di bombe sul nemico e mai lo sbaglia.

Le cause della guerra non scandaglia,
«Di storie giuste o ingiuste non mi angoscio»,
è questo il suo ragionamento floscio,
«mi basta lo stipendio e una medaglia».

Un giorno ai suoi bambini che racconta?
Che con la spada ha combattuto in guerra
e mostra una ferita come impronta

dell’arma di un nemico che gli sferra
un colpo ad armi pari e invece è l’onta
di qualche avventuretta terraterra.

XXII

Ci sono qui bambini che, re nudi,
additino agli adulti quei signori
che con l’arte domata dagli allori
appagan con successo i loro studi?

Ci sono qui bambini che un po’ rudi
si prendan gioco dei capolavori,
indifferenti ai miti che, illusori,
assordano le sale di tripudi?

Addestrati a parlare, non li vedo
giocare per le strade, stanno in casa
a combattere mostri senza credo

e mai li vedo con la mente evasa
da scuole, compiti, palestre e chiedo
di salire con me su una cerasa.

XXIII

Disteso emergi dalla crosta inquieta,
Monte Felice: come un elefante
ti han scolpito e dipinto con le piante
l’acqua e il vento dall’era della creta.

Non è passata solo una cometa
da quando un orso, un tasso o un lupo errante
han trovato una tana in te sognante
e il nibbio il nido e il ragno la sua seta.

Nel sonno forse non ti sei accorto
di quando apparve il primo agricoltore
che al tuo profilo allineò il suo orto.

Ora sogna nell’era del trasporto
di ferirti con strade il costruttore
e tu non più dormiente appari morto.

XXIV

Ci siamo detti veramente tutto,
madre? Figlia con me di madre terra,
tu sorella, io fratello, per lei in guerra
la vedevamo a nostro modo in lutto.

Se mi osservavi: «Non guardare il brutto,
di vita e morte il positivo afferra,
ché non c’è cosa al mondo che non erra»,
le mie passioni borbottavo asciutto.

La malattia dissidi poi ripara,
ma a te stravolge il corpo, a me il sorriso
e, oscura al mondo, a noi diventa chiara

la parte che è nascosta dietro il viso.
Ti ho pettinata bella nella bara,
chissà se ti vedrai dal paradiso.

XXV

«Che vi disegno, farfalle, sulle ali?»,
così Dio, del Cretaceo insoddisfatto,
«A te gli occhi di un gufo, a te di un gatto,
musi di serpi e maschere spettrali».

Ma quelle non vedevano i rivali.
Creò allora gufi e gatti con l’olfatto,
dalle ali delle sfingi copiò il ratto,
la volpe il viso in ere diluviali.

Quelle alle piante vollero copiare
i verdi, i gialli e i toni dell’autunno
e i grigi di città copiano adesso,

ché Dio nel Quaternario lascia fare.
Ma chi tra un Giotto e una farfalla è alunno
nell’arte del puntino del riflesso?

XXVI

Quanto è magnifico guardare un cane,
vedrai in ragione e istinto un solo centro,
làsciati raccontare cose strane
e ama e pensa con me a guardare addentro.

Guardalo come Dio quando rimane
seduto a contemplarlo: «Gli concentro
la mente e il corpo; sa scavare tane?
Vediamo che combina e poi subentro».

Gli fa cenni di assenso appena vede
le sue trovate e vede cose buone,
non si potrebbe farne uno migliore.

A guardarlo negli occhi, pare, chiede
non tanto un po’ di pane o compassione
quanto chinarli prima, con pudore.

XXVII

Quando hai scoperto la tua voce bella?
Bambina forse, ad imitare i suoni
di grilli, di sirene, vènti, tuoni,
cercavi note e sguardi da una stella.

Qualcuno ti avrà chiesto una storiella
e quando l’ha ascoltata in mille toni
le Muse ha ringraziato e i loro doni
per aver scelto te come modella.

Canta. Non agli amanti del successo
o a chi commenta con parole dotte,
canta alla muta nebbia di novembre,

né chiedere alla voce il suo permesso,
e quando ascolti il nulla della notte
ricordati dei grilli di settembre.

XXVIII

La morte non risparmia noi fontane,
acqua donavo a uomini e animali,
a donne con barili e con boccali,
orci colmavo, botti e damigiane.

A sera i muli, come in carovane,
tra fischiettii bevevano gioviali
tornando da fatiche e vie rurali
in compagnia del suono di campane.

Adesso secca, senza vasca e mesta
da quando in tubi scorro depurata
ricordo donne col barile in testa

che tra una chiacchierata e una scenata
attendevano grate. Di me resta
una lapide nuova e la facciata.

XXIX

A Biccari smarrito nella notte
(un sogno? un film?) per strade, viali e vichi
oh, quanti incontro abitatori antichi
in corsa, immoti, solitari, a frotte,

un cucciolo di drago su una botte,
un dinosauro nano sotto i ginchi,
dormienti in angoli gli ornitorinchi,
chirotteri schioccanti nelle grotte!

Strillava Alice al Bianconiglio: «Balla,
non senti l’orchestrina in allegria?».
E quello: «È tardi, torno a Castelluccio».

«Che mondo è questo?», chiedo a una farfalla,
«c’è un posto dove dire una poesia?»,
e mi conduce qui in questo cantuccio.

XXX

Ho seminato un chicco nel mio vaso,
ho preso un po’ di terra nel giardino
e per vespaio pietrisco cittadino,
lo innaffio a sera dopo il mio rincaso

e raspo con il dito se per caso
si gonfia e come in guscio di pulcino
risuona, batte e poi fa capolino.
Il germe è proprio quello di un ceraso!

Le prime foglie son spuntate a maggio,
i primi rami qualche mese dopo,
a ottobre ha già la forma di alberello.

Ha superato inverni con coraggio,
adesso sta nell’orto con lo scopo
di dar ciliege e al sole far da ombrello.

XXXI

N’acene agghje chiantate dint’lu vase,
la tèrre agghje pigghiate de giardine
e pe vespaje li vricce cittadine,
lu annaffje a sére quanne torne a case,

po’ raspe che lu dite sè pe case
(e come dint’a l’uove lu pucine)
s’abbotte e vatte da lu pedecine.
È propje na semènte de cerase!

Li prime foglie so spuntate a magge,
li cacchiariélle cacche mése dope
a uttobbre ha già la forme d’arulicchje,

ha resestute a viérne che curagge
e mo’ se trove dint’a l’uorte che lu scope
de fa cerase e a sole dà mbrèllicchje.

traduzione in castelluccese

XXXII

Qui t’ha portata il vento che consola
i muri delle case e dona un suono
a canne e voce ai rami e siepi e un tono
al mare ed urla a una finestra sola.

Qui t’ha portata il vento, con lui vola
il polline, la foglia in abbandono,
la sabbia del deserto e con il tuono
la goccia che si schianta al vetro e cola.

È anima il vento alla materia inerte!
Tu immagini la voce di un gattino
e invece è il vento, è voce di una Musa

che sogni e mostri in musica converte,
e quando tace, sola su un cuscino,
tu provi a mormorare le sue fusa.

XXXIII

Cervantes, Kierkegaard, Novalis, Dante,
Dostoevskij, Michaelstädter, Fedro, Omero,
Cvetaeva, Sterne, Weil, Seneca, Pavese,
Luciano, Saffo, Čapek, Kraus, Leopardi,

Stendhal, Plutarco, Bulgakov, Von Kleist,
Prévert, Brecht, Ceronetti, Campanella,
Chuang Tse, Baudelaire, Ortese, Blake, Montaigne,
Eraclito, Marziale, Horkheimer, Fabre,

Esiodo, Rilke, Nietzsche, Pasolini,
Gogol, Foscolo, Hölderlin, Adorno,
Giordano, Musil, Puskin, Epicuro,

Archiloco, Jarry, Swift, Miller, Plinio,
Artaud, Thoreau, Rimbaud, Villon, Platone,
dev’essere un bel libro la natura.

XXXIV

Si annoiano in città, non hanno affetto
e solo a notte godono il bisbiglio
di uccelli che li scelgono a giaciglio,
in gabbie di cemento senz’aspetto.

Non se la passa meglio il mio boschetto
(un giorno è giunto il fuoco con cipiglio
su abeti, pini, un mozzicone il tiglio),
a cenere e a carbone fa da letto.

Sul nido degli uccelli cade il lutto,
tu, tartaruga, a casa non arrivi,
urla agli insetti il crepitio del fuoco

in quale direzione uscire vivi
o sotto quale sasso far trasloco
e quanto agli alberi ‘sto mondo è brutto.

10 agosto 2012

XXXV
A ogni curva del camion il pennuto

A ogni curva del camion il pennuto
si addossa l’uno all’altro e alla parete
delle gabbie e da qui sfuggono inquiete
le piume sventagliate al buio muto.

Il chiacchiericcio, l’ultimo, più acuto
di quello del motore sentirete
se con l’auto in corteo lo seguirete
con sguardo di Protoavis detenuto.

Non lo sorpasso il camion, dieci piani,
lo seguo verso mattatoi lontani,
ondeggia ad ogni curva il grattacielo.

No, non mi fermerò a guardar ripiani
di polli denudati esposti in gelo,
raccoglierò una piuma come stelo.

30 luglio 2013, per Biccari

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