Antispecismo in alcuni aforismi di Nietzsche a cura di Pasquale Cacchio
http://www.liberazioni.org/articoli/CacchioP-01.htm
Da “Cinque prefazioni per cinque libri non scritti” (1872)
Traduz. di Ferruccio Masini, Newton Compton, Roma 1981
1. Sul pathos della verità. […] Forse, di tutto ciò che noi con una metafora presuntuosa chiamiamo “storia universale” e “verità” e “gloria”, un demone privo di tatto non avrebbe niente da dire se non queste parole:
«In un qualche angolo remoto di questo fiammeggiante universo che si estende attraverso un’infinità di sistemi solari, ci fu un tempo un corpo celeste sul quale degli animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Si trattò del minuto più tracotante e mendace dell’intera storia universale, e tuttavia soltanto d’un minuto. Dopo alcuni sussulti della natura quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ed era tempo: giacché per quanto andassero superbi del loro aver già molto conosciuto, alla fine con loro grande rincrescimento dovettero arrivare alla conclusione che tutto avevano conosciuto in maniera falsa. E questa fu la sorte di questi disperati animali che avevano trovato la conoscenza».
5. Certame omerico, dalla prefazione. Quando si parla di umanità, l’idea in fondo riguarda ciò che separa e contraddistingue l’uomo dalla natura. Ma una tale separazione in realtà non si dà: le qualità “naturali” e quelle che si presumono specificamente “umane” sono cresciute insieme inseparabilmente. L’uomo, nelle sue forze più alte e più nobili, è tutto natura e porta in sé questo suo strano carattere ancipite. […].
Da “Verità e menzogna in senso extramorale” (1873)
Traduz. di Ferruccio Masini, Newton Compton, Roma 1981
Ottavo capoverso. […] Già [all’uomo] costa molta fatica ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell’uomo, e che chiedersi quale sia la più giusta delle due percezioni è assolutamente privo di senso, poiché qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della giusta percezione e cioè in base a un paradigma che non esiste.
Da “Utilità e danno della storia per la vita” (1874)
Traduz. di Cristiana Valentini, Newton Compton, Roma 1974
Cap. 1, primo capoverso. [l’uomo] si vanta di fronte all’animale della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello […].
Cap. 9, quarto e quinto capoverso. […] Vertici e mete del processo del mondo!
Senso e soluzione di tutti gli enigmi del divenire in genere espressi nell’uomo moderno, il più maturo frutto dell’albero della conoscenza, – ciò chiamo un sentimento pieno di superbia: in questo elemento si possono riconoscere gli anticipatori di tutti i tempi, anche se sono venuti per ultimi! Mai giunse così in alto la concezione della storia, nemmeno in sogno; poiché oggi giorno la storia umana è solo la continuazione della storia degli animali e delle piante; se nei più profondi abissi del mare l’universalista storico può trovare ancora le tracce di se stesso, come mucillagine vivente, vedendo come un miracolo l’enorme strada percorsa fino ad ora dall’uomo, lo sguardo è colto da vertigini dinanzi all’ancora più stupefacente miracolo, dinanzi allo stesso uomo moderno che può abbracciare con lo sguardo questa strada. Egli sta alto e superbo in cima alla piramide del processo del mondo, in quanto pone in cima la pietra finale della sua conoscenza, sembra che egli gridi alla natura tutto intorno: «Siamo alla meta, siamo alla meta, noi siamo la natura compiuta».
Sesto capoverso. Europeo troppo orgoglioso del diciannovesimo secolo, tu vaneggi! Il tuo sapere non porta a compimento la natura, ma uccide solo la tua propria. Paragona una sola volta la tua altezza di uomo che sa, alla tua piccolezza di uomo che può.
Diciassettesimo capoverso. […] Se invece gli insegnamenti del sovrano divenire, della fluidità di tutte le cose, tipi e specie, della mancanza di tutte le differenze cardinali tra l’uomo e l’animale, insegnamenti che io ritengo veri ma micidiali, […]
Da “Umano, troppo umano” vol. I (1878-79)
Traduz. di Sossio Giametta e Mazzino Montinari
2. Difetto ereditario dei filosofi. Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una aeterna veritas, come un’entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. […] Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.
4. Astrologia e affini. […] pretende che le stelle del cielo girino intorno al destino dell’uomo […].
11. Il linguaggio come presunta scienza. L’importanza del linguaggio per lo sviluppo della civiltà consiste nel fatto che l’uomo pose mediante il linguaggio un proprio mondo accanto all’altro, un punto che egli ritenne così saldo da potere, facendo leva su di esso, sollevare dai cardini il resto del mondo e rendersene signore. In quanto ha creduto per lunghi periodi di tempo nelle nozioni e nei nomi delle cose come in aeternae veritates, l’uomo ha acquistato quell’orgoglio col quale si è innalzato al di sopra dell’animale: egli credeva veramente di avere nel linguaggio la conoscenza del mondo. Il creatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare alle cose appunto solo denominazioni; al contrario egli immaginava di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose […].
29. Inebriato dal profumo dei fiori. La nave dell’umanità, si pensa, ha una profondità d’immersione tanto maggiore, quanto più viene caricata; si crede che quanto più profondamente l’uomo pensa, quanto più delicatamente sente, quanto più altamente stima se stesso, quanto più cresce la distanza fra lui e gli animali, – quanto più appare fra gli animali come il genio, – tanto più vicino giungerà alla reale essenza del mondo e alla sua conoscenza […].
247. Circolo dell’umanità. Forse tutta l’umanità è soltanto una fase evolutiva di una determinata specie animale di durata limitata: sicché l’uomo è divenuto dalla scimmia e in scimmia ancora si trasformerà, mentre non c’è nessuno che prenda qualche interesse a questo bizzarro scioglimento di commedia. […].
519. La verità come Circe. L’errore ha fatto di animali uomini; sarebbe la verità in grado di rifare dell’uomo un animale?
Da “Umano, troppo umano” vol. II (1878-79)
Traduz. di Sossio Giametta e Mazzino Montinari
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9. “Legge di natura” una parola della superstizione. Se parlate con tanto rapimento del dominio della legge nella natura, o dovete ammettere che tutte le cose naturali seguano, per un’obbedienza libera che si sottomette, la loro legge – nel qual caso voi dunque ammirate la moralità della natura – oppure vi affascina l’idea di un meccanico creatore, che ha fatto l’orologio più artistico, applicandovi come ornamento esseri vivi. Attraverso l’espressione “dominio della legge”, la necessità della natura diventa più umana e un ultimo rifugio per le fantasticherie mitologiche.
Da “Il viandante e la sua ombra”
12. […] un’umanità – il cui sentimento fondamentale è e rimane quello per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il superanimale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo! – Vanitas vanitatum homo.
57. I rapporti con gli animali. Si può ancora osservare il sorgere della morale nel nostro comportamento verso gli animali. Dove utilità e danno non vengono in considerazione, noi abbiamo un sentimento di piena irresponsabilità; uccidiamo e feriamo per esempio insetti, o li lasciamo vivere, senza di solito attribuire a ciò alcuna importanza. Siamo così goffi, che già le nostre gentilezze verso i fiori e i piccoli animali sono quasi sempre micidiali: ciò che non pregiudica affatto il piacere che prendiamo da essi. […].
327. La natura dimenticata. Noi parliamo di natura e intanto ci dimentichiamo di noi stessi: noi stessi siamo natura, quand même -. Per conseguenza la natura è qualcosa di affatto diverso da quello che sentiamo nel farne il nome.
350. Il motto aureo. All’uomo sono state poste molte catene, affinché egli disimpari a comportarsi come un animale: e veramente egli è divenuto più mite, spirituale, gioioso e assennato di tutti gli animali. Ma ora soffre ancora del fatto di aver portato per tanto tempo le catene, di aver mancato per tanto tempo di aria buona e di movimento libero; queste catene però sono, lo ripeterò sempre di nuovo, gli errori gravi e insieme sensati delle idee morali, religiose e metafisiche. […].
Da “Aurora” (1879-81)
Traduz. di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, Adelphi editore.
4. Contro la fantasticata disarmonia delle sfere. Dobbiamo nuovamente cancellare dal mondo la molta, falsa grandiosità, perché essa è contro la giustizia alla quale hanno diritto tutte le cose dinanzi a noi. E per questo occorre che non si voglia vedere il mondo più disarmonico di quel che è.
17. La buona e la cattiva natura. Gli uomini hanno cominciato col trasporre fittiziamente se stessi nella natura: vedevano se stessi e i loro simili, cioè i loro sentimenti malvagi e bizzarri, come occultati tra nubi, temporali, animali da preda, alberi e piante; inventarono allora la “natura malvagia”. Ed ecco che venne un tempo in cui ancora fittiziamente estromisero se stessi dalla natura, il tempo di Rousseau: si era così sazi l’uno dell’altro che si voleva assolutamente avere un angolo del mondo in cui l’uomo non potesse giungere con il suo tormento: si inventò la “natura buona”.
26. Gli animali e la morale. Le pratiche che vengono perseguite nella società più raffinata: cioè evitare accuratamente il ridicolo, lo stravagante, il pretenzioso; tener nascoste le proprie virtù come pure le bramosie più ardenti, mostrarsi equanime, inserirsi in un ordine, diminuirsi, – tutto questo, in quanto costituisce la morale sociale, lo si può trovare grosso modo ovunque, perfino al livello più basso del mondo animale, – e solo a questa profondità vediamo la riposta intenzione di tutte queste amabili precauzioni: ci si vuole sottrarre ai propri persecutori e si vuole essere avvantaggiati nel braccare la preda. Perciò gli animali imparano a dominarsi e a simulare in modo che molti, per esempio, accordano i loro colori al colore dell’ambiente (in virtù della cosiddetta “funzione cromatica”), si fingono morti oppure prendono le forme e i colori di un altro animale o della sabbia, delle foglie, dei licheni, delle spugne (quel che gli scienziati inglesi designano con la parola mimicry). Così il singolo si nasconde sotto la generalità del concetto “uomo” o nella società, ovvero si adatta a principi, classi, partiti, opinioni del tempo o dell’ambiente: e si troverà facilmente la similitudine animalesca per tutte le sottili maniere di fingerci felici, riconoscenti, potenti, innamorati. Anche quel senso che in fondo è il senso della sicurezza, l’uomo lo ha in comune con l’animale: non ci si vuole fare ingannare, non ci si vuole indurre noi stessi in errore, si presta orecchio con diffidenza alle parole suadenti della passione, ci si reprime e si rimane in guardia contro se stessi: l’animale comprende tutto questo al pari dell’uomo, anche in esso l’autodominio germoglia dal senso del reale (dalla saggezza). Similmente l’animale osserva gli effetti che esercita sulla rappresentazione di altri animali, a partire da lì impara a riguardare indietro su se stesso, a cogliersi “oggettivamente”: esso ha il suo grado di autocoscienza. L’animale giudica i movimenti dei suoi avversari e dei suoi amici, impara a memoria le loro peculiarità, è su questo che prende le sue misure: contro individui di una determinata specie rinuncia una volta per tutte alla lotta, e allo stesso modo, nell’avvicinare molte varietà di animali, indovina la loro intenzione di pace e di accordo. Gli inizi della giustizia come quelli della saggezza, della moderazione, del valore, – insomma tutto ciò che qualifichiamo con il nome di virtù socratiche, è animalesco: un corollario di quegli istinti che insegnano la ricerca del nutrimento e la fuga dai nemici. Se ora noi consideriamo che anche l’uomo più elevato si è innalzato e affinato appunto soltanto nel modo del suo nutrimento e nel concetto di tutto quanto glie è ostile, ci sarà concesso di designare come animalesco l’intero fenomeno morale.
31. Lo spirito come motivo d’orgoglio. L’orgoglio dell’uomo il quale recalcitra contro la teoria della sua discendenza dagli animali, e tra natura e uomo pone il grande iato, – questo orgoglio ha il suo fondamento in un pregiudizio riguardo a ciò che è spirito; e questo pregiudizio è relativamente giovane. Nella grande preistoria dell’umanità si supponeva lo spirito in ogni luogo e non si pensava a onorarlo come privilegio dell’uomo. Poiché anzi di tutto quanto è spirituale (accanto a ogni istinto, malvagità, inclinazione) si era fatto un bene comune e conseguentemente lo si era reso comune, non ci si vergognava di discendere da animali o piante (le stirpi aristocratiche si credevano onorate da tali favole) e si vedeva nello spirito ciò che ci ricollega alla natura, non ciò che ci separa da essa. Così ci si educava alla modestia, – e pure in seguito a un pregiudizio).
49. Il nuovo sentimento fondamentale: la nostra definitiva caducità. Una volta si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia accanto ad altri orribili animali, e digrigna intelligentissima i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui va l’umanità deve servire a dimostrare la sua sovranità e la sua affinità con Dio. Ahimé, anche così non si arriva a niente! Alla fine di questa strada c’è l’urna funeraria dell’ultimo uomo e dell’ultimo becchino (con la scritta “nihil humani a me alienum puto”). Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità – che forse finirà per essere assai più in basso di quanto non fosse al principio – non c’è per essa alcun trapasso in un ordine più elevato, come non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzarsi, al termine della loro “carriera terrestre”, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica dietro l’essere stato: perché mai in questa eterna commedia ci dovrebbe essere un’eccezione per un qualsiasi piccolo astro, ed ancora per una piccola specie vivente su di esso? Basta con questi sentimentalismi!
286. Animali domestici, da salotto e simili. C’è qualcosa di più nauseante del sentimentalismo verso piante e animali, da parte di un essere che fin dal principio ha abitato in mezzo a loro come il più furibondo nemico, e che infine pretende anche sentimenti affettuosi nelle sue vittime indebolite e mutilate? Dinanzi a questo genere di “natura” si addice all’uomo soprattutto serietà, supposto che sia un uomo pensante.
333. “Umanità”. Non riteniamo gli animali esseri morali. Ma pensate forse che gli animali ritengano noi esseri morali? Un animale che sapeva parlare disse: «L’umanità è un pregiudizio di cui, se non altro, noi animali non siamo vittime».
424. Per chi esiste la verità. […] Una volta si era convinti a tal punto che l’uomo fosse il fine della natura, da […].
438. Uomo e cose. Perché l’uomo non vede le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose.
455. La prima natura. Dato il modo in cui oggi veniamo educati, noi riceviamo in primo luogo una seconda natura; e quando il mondo ci dice maturi, maggiori d’età, utilizzabili, noi la possediamo. Pochi sono abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno questa pelle di dosso, allorquando, sotto il suo guscio, è maturata la loro prima natura. Nei più, avvizzisce il seme di essa.
Da “La Gaia scienza” (1881-82)
Traduz. di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, Adelphi editore, Milano.
115. I quattro errori. L’uomo è stato educato dai suoi errori: in primo luogo si vide sempre solo incompiutamente, in secondo luogo si attribuì qualità immaginarie, in terzo luogo si sentì in una falsa condizione gerarchica in rapporto all’animale e alla natura, in quarto luogo escogitò sempre nuovo tavole di valore considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate, di modo che degli umani istinti e stati, ora questo, ora quello venne a prendere il primo posto e in conseguenza di tale apprezzamento fu nobilitato. Se si esclude dal computo l’effetto di questi quattro errori, si escluderà anche l’umanesimo, l’umanità e la “dignità dell’uomo”.
143. Il vantaggio più grande del politeismo. […] Il monoteismo, invece, questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico – la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono che dèi falsi e bugiardi – costituì forse il pericolo più grande corso dall’umanità fino a oggi; fu allora che rappresentò una minaccia per l’umanità quell’arresto prematuro, già da un pezzo raggiunto, per quel che c’è dato sapere, dalla maggior parte delle altre specie animali: in quanto esse tutte credono in un animale unico, normativo e ideale della loro specie e hanno definitivamente tradotto in carne e sangue l’eticità del costume. […].
224. Critica degli animali. Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.
294. Contro i calunniatori della natura. Mi risultano sgradevoli quegli uomini presso i quali ogni tendenza naturale si trasforma subito in malattia, in qualcosa di deturpante o perfino ignominioso: costoro ci hanno indotto a credere che tendenze e istinti degli uomini siano malvagi; essi sono la causa della nostra grande ingiustizia contro la nostra natura, contro ogni natura. […].
346. Il nostro interrogativo. […] Tutto l’atteggiamento “uomo contro mondo”, l’uomo come principio “rinnegante il mondo”, come misura di valore delle cose, come giudice del mondo, che finisce per mettere l’esistenza stessa sulla bilancia e la trova troppo leggera: la mostruosa assurdità di questo atteggiamento è entrata come tale nella nostra coscienza e ci disgusta – ci vien già da ridere, quando troviamo “uomo e mondo” posti l’uno accanto all’altro, separati dalla sublime arroganza della paroletta “e”! […].
354. Del «genio della specie». […] A che scopo una coscienza in generale, se essa è in sostanza superflua? […]
379. Troncando il discorso del giullare. […] quanto meno è umana la natura, tanto più l’amiamo […].
Dai frammenti postumi (1881-82)
11 [7] […] Siamo le gemme di un solo albero. Che sappiamo noi di ciò che possiamo diventare nell’interesse dell’albero? Ma nella coscienza sentiamo come se volessimo è dovessimo essere tutto, arriviamo a fantasticare di un “io” contrapposto a tutto il resto, “al non io”. […].
11 [26] […] Penso che già ogni essere organico presupponga il rappresentare.
11 [84] […] Il saggio e l’animale si avvicineranno e produrranno un tipo nuovo!
11 [119] L’uomo è l’animale diventato pazzo […].
11 [236]. È strano: ciò di cui l’uomo va più orgoglioso, l’autocontrollo per mezzo della ragione, viene raggiunto meglio e più sicuramente anche dagli organismi infimi! Ma l’agire secondo scopi, in realtà, non è che la minima parte del nostro autocontrollo: se l’umanità agisse realmente secondo la propria ragione, cioè sul fondamento delle sue opinioni e della sua scienza, sarebbe da moltissimo tempo perita. […].
11 [289]. Ecco un’idea sbagliata: per conservare la specie vengono sacrificati innumerevoli esemplari. Un simile “per” non esiste! Così non esiste una specie, ma soltanto vari esseri individuali! Perciò non vi è sacrificio né dissipazione! Dunque nemmeno irrazionalità! La natura non vuole “conservare la specie”! Di fatto si conservano molti esseri simili con condizioni di esistenza simili più facilmente di esseri abnormi.
11 [307]. Il mio compito: la disumanizzazione della natura e poi la naturalizzazione dell’uomo, una volta che egli sia giunto al puro concetto di “natura”.
11 [337]. L’uomo che prende la natura al suo servizio e la sopraffà.
L’uomo scientifico lavora con l’istinto di questa volontà di potenza e si sente giustificato.
Progresso nel sapere come progresso nella potenza (ma non come individuo). Piuttosto questo uso schiavistico dello scienziato abbassa l’individuo.
Da “Al di là del bene e del male” (1887)
Traduz. di Marina Montanari, Rizzoli, Milano, 1968.
2. Dopo aver letto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d’occhio, mi dico: anche la maggior parte del pensiero cosciente si può annoverare tra le attività istintive, persino nel caso del pensiero filosofico; […] “l’essere cosciente” non può essere contrapposto in modo rilevante all’istinto; […] Posto infatti che non sia proprio l’uomo la “misura delle cose”…
21. La causa sui è la migliore contraddizione che finora sia stata inventata, una specie di prodotto artificiale logico contro natura: ma l’orgoglio sconfinato dell’uomo ha fatto sì che egli proprio in questo non senso si sia impigliato e irretito tremendamente. La esigenza della “libertà di volere”, in quella sorta di metafisico intelletto superlativo, che purtroppo predomina ancora nelle teste dei mezzi informati, l’esigenza di assumere intera e fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni scaricandone e scagionandone Dio, il mondo, gli antenati, il caso e la società, non è in sostanza se non l’esigenza di essere causa sui, con una temerarietà più grande di quella del barone di Münchhausen nel volersi cavar fuori dal pantano del nulla tirandosi per i propri capelli.
202. Diciamo subito ancora una volta ciò che abbiamo già detto cento volte: perché le orecchie non sono oggi ben disposte per tali verità, per le nostre verità. Noi sappiamo già abbastanza quanto suoni offensivo se uno osa annoverare l’uomo semplicemente e senza ambagi fra gli animali; ma viene poi addirittura considerato una colpa il fatto che riferendoci agli uomini delle “moderne idee” continuamente noi impieghiamo espressioni come “gregge”, “istinti del gregge” e simili. Che ci possiamo fare! Non possiamo altrimenti: perché è proprio in questo che risiede la nostra nuova concezione. […].
230. […] Riportare appunto l’uomo alla natura; saper rendersi conto e liberarsi delle molte spiegazioni e dei molti doppi sensi orgogliosi ed entusiasti che finora sono stati appiccicati col gesso e col pennello a quell’eterno fondo dell’homo natura; e far sì che l’uomo d’ora in poi stia davanti all’uomo, come già oggi, indurito alla scuola della scienza, sta davanti all’altra natura con imperterriti occhi edipici e sigillati orecchi ulissidi, sordo ai richiami degli antichi uccellatori metafisici, che per troppo tempo gli hanno fischiato nell’orecchio: “Tu sei qualcosa di più! qualcosa di più alto! sei d’altra origine!”.
291. L’uomo, una bestia assai bugiarda, artificiosa e opaca, pericolosa per gli altri animali meno per la sua forza che per la sua astuzia e prudenza, ha scoperto la buona coscienza per godere della sua anima come di una cosa semplice; e tutta la morale è una coraggiosa e lunga falsificazione, in virtù della quale diventa generalmente possibile il godimento della contemplazione dell’anima. Sotto questo punto di vista, fanno forse parte del concetto di “arte” molte più cose di quando comunemente si creda.
Da “Crepuscolo degli idoli” (1887)
Traduz. di Ferruccio Masini, Adelphi editore.
Quelli che “migliorano” l’umanità
2. In tutti i tempi si è voluto “migliorare” gli uomini: soprattutto a questo si è dato il nome di morale. Ma sotto la stessa parola sta nascosta la massima diversità di tendenza. Sia l’ammansimento della bestia uomo, che l’allevamento di una specie umana, sono stati chiamati “miglioramento”: soltanto questi termini zoologici esprimono realtà – senza dubbio realtà di cui il tipico “miglioratore”, il prete, non sa nulla – non vuole sapere nulla… Chiamare “miglioramento” l’ammansimento di un animale è quasi una facezia per le nostre orecchie. Chi sa cosa avviene nei serragli, dubita che quivi la bestia venga “migliorata”. Essa viene infiacchita, viene resa meno nociva, diventa, grazie al sentimento depressivo della paura, grazie al dolore, alle ferita, alla fame, una bestia malaticcia. Non diversamente stanno le cose per l’uomo mansuefatto, che il prete ha “migliorato”. […].
Da “L’Anticristo” (1888)
Traduz. di Ferruccio Masini, Adelphi editore.
14.Abbiamo altrimenti appreso. In tutte le cose ci siamo fatti più modesti. Non deriviamo più l’uomo dallo “spirito”, dalla “divinità”, lo abbiamo ricollocato tra li animali. Esso è per noi l’animale più forte, perché è il più astuto: una conseguenza di ciò è la sua intelligenza. Ci guardiamo, d’altro canto, da una vanità che anche a questo punto vorrebbe di nuovo far sentire la sua voce: quella per cui l’uomo sarebbe stato la grande riposta intenzione dell’evoluzione animale. Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere è, accanto a lui, su uno stesso gradino di perfezione… E affermando questo, affermiamo ancora sempre troppo: relativamente parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più pericolosamente aberrante dai suoi istinti – indubbiamente, con tutto ciò, anche il più interessante! –
Da “Ecce homo” (1889)
Traduz. di Roberto Calasso, Adelphi editore, Milano.
Dal prologo
2. […] “Migliorare” l’umanità sarebbe l’ultima cosa che io mai prometterei. Non sarò io a elevare nuovi idoli, e quanto ai vecchi, comincino a imparare che vuol dire avere i piedi di argilla. Rovesciare idoli (parola che uso per dire “ideali”) – questo è affar mio. La realtà è stata destituita del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è dovuto fingere un mondo ideale… […].
Da “La volontà di potenza” (….)
Traduz. di Angelo Treves, Bompiani, Milano 2000, III edizione
frammento 303
L’uomo: una piccola, sovreccitata specie animale, che – per fortuna – ha il suo tempo; la vita sulla terra in generale dura un istante, è un incidente, un’eccezione senza conseguenze, una cosa che rimane senza importanza per il carattere complessivo della terra; la terra stessa, come ogni stella, è uno iato fra due nulla, un evento non pianificato, senza ragione, né volontà, né coscienza di sé, è la forma peggiore della necessità, la stupida necessità…Contro questa osservazione qualcosa si rivolta in noi; il serpente Vanità ci parla e ci dice: “Tutto ciò deve essere falso perché ci ripugna…Non potrebbe essere il Tutto una mera parvenza? E l’uomo nonostante tutto, per dirla con Kant…”.
frammento 506
È evidente che ogni creatura diversa da noi percepisce altre qualità e quindi vive in un mondo diverso da quello in cui viviamo noi. Le qualità sono le idiosincrasie proprie di noi uomini: pretendere che queste nostre interpretazioni e valori umani siano valori universali e forse costitutivi è una pazzia ereditaria della superbia umana.
frammento 684
La mia veduta d’insieme. Prima proposizione: l’uomo in quanto genere non progredisce. Si raggiungono, sì, dei tipi superiori, ma non si conservano. Il livello della specie non si eleva.
Seconda proposizione: l’uomo come genere non rappresenta un progresso rispetto a un qualsiasi altro animale. L’intero regno animale e vegetale non si sviluppa procedendo dal più basso al più alto…Ma tutto si sviluppa contemporaneamente, una cosa oltre l’altra e attraverso l’altra e contro l’altra. Le forme più ricche e più complesse – poiché le parole “tipo superiore” non dicono nulla di più – periscono con maggiore facilità: solo le infime conservano un’apparente immortalità. I tipi superiori si ottengono di rado e si mantengono al vertice a stento: i più bassi hanno il vantaggio di una compromettente fecondità.
[…]
Terza proposizione: l’addomesticamento (“la cultura”) dell’uomo non arriva a grande profondità…Laddove penetra in profondità ecco subito la degenerazione (tipo: il cristiano). L’uomo “selvaggio” (o, per esprimermi nel linguaggio della morale, l’uomo cattivo) è un ritorno alla natura – e, in un certo senso – un ripristino dell’uomo, la sua guarigione dalla “cultura”…
Da giovane odiavo Nietzsche.
Il primo libro che lessi, al di là del bene e del male, lo conservo ancora lì lì per buttarlo nella spazzatura: è pieno di insulti.
Poi ho scoperto quanto il suo pensiero fosse antispecista prima che tale parola fosse inventata.
Lui ne avrebbe inventata una migliore.
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“Nietzsche” a sostituire il termine antispecismo?
Si sarebbe offeso.
Quelle quadre, belle, le prendo per cornici 🙂
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